Arrivo sempre in ritardo.
Non per distrazione, non per fare scena e nemmeno per una qualche forma sbiadita di leggerezza che a volte si scambia per disinteresse. È semplicemente il mio modo, meticoloso e radicato, di attraversare il tempo. Una forma che ho preso senza volerlo e che non ho mai davvero cercato di modificare.
Pare che l’entrata nelle cose, nelle stanze, nelle relazioni, nei gesti quotidiani, richieda ogni volta un mio passo sfalsato, sbagliato nel ritmo ma fedele a sé.
Un margine costante, sempre lo stesso: quindici minuti.
Un ritardo stabile, senza variazioni, una distanza che mi separa sempre di poco ma mai abbastanza da permettermi di fingere di essere davvero in tempo.
L’aria, per me, si apre sempre con un leggero differimento. Come se il mondo mi accogliesse sempre un po’ dopo, quando ha già preso forma.
Noemi lo sapeva.
E non ne faceva una questione, non si appoggiava su quella differenza, non cercava di correggerla né di darle un senso.
L’assorbiva nel modo in cui si assorbono le piccole anomalie dei corpi vicini, quelle incrinature che finiscono per diventare parte di un lessico comune, di una grammatica condivisa, e che smettono di richiedere attenzione proprio nell’istante in cui vengono riconosciute inevitabili, certe.
Mi prendeva con quel piccolo ritardo come parte della mia forma, come un modo prevedibile di entrare nelle cose, come la conseguenza necessaria della persona che ero e che, nonostante tutto, continuo ad essere.
E per lei andava bene così.
Quella volta (era aprile, forse, uno di quei giorni che non hanno un nome, ma che restano appesi a un’atmosfera precisa) lei era già lì.
Era seduta su una sedia di ferro, fuori da un bar con i tavolini sbilanciati e il rumore secco del traffico a ridosso. Il sole le cadeva addosso solo a metà, quasi che anche la luce avesse deciso di fermarsi a osservarla di sbieco.
Aveva le gambe incrociate con quella sua tipica naturalezza disordinata, i piedi nudi infilati nelle Stan Smith slacciate e tra le mani, una sigaretta sottile, stretta con sicurezza ma senza eleganza. La cartina umida s’incollava sempre male, gonfiandosi agli angoli: non rollava tabacco, rollava carciofi.
Quando mi vedeva apparire si tirava indietro una ciocca di capelli e mi guardava con gli occhi stretti per la luce, il viso appena inclinato e lo sguardo pieno di quella presenza nuda con cui si guarda qualcuno che si ama senza doverlo per forza dire.
Io, puntualmente, piombavo correndo.
Il passo scomposto, le guance accese, le mani incerte su dove poggiarsi, le scuse pronte in gola ma già consumate.
Ero (sono) sempre sulla difensiva prima ancora di dire una parola, quasi a voler anticipare il mio stesso errore, ridurlo e renderlo meno pesante.
Lei si portava la sigaretta alle labbra, aspirava lentamente e soffiava via il fumo da un lato, con un movimento lento e netto, liberando lo spazio davanti a sé per farmi entrare senza inciampo.
Poi, come se fosse un rito solo nostro, mi diceva:
“Quindici minuti. Come sempre.”
Si sporgeva in avanti, prendeva il bicchiere d’acqua che aveva già ordinato e lo spingeva verso di me con due dita, lentamente, seguendo sempre la stessa linea invisibile sul tavolo, senza stacchi, senza esitazioni.
Poi quel giorno, dopo una pausa misurata con il corpo più che con il tempo, mi disse una cosa banalissima, ma che dopo anni ricordo ancora in modo lucido e vivido. Solo: “Però sei bella.”
E io, io che da sempre fatico a reggere la forma convenzionale di certe frasi, io che quando mi dicono “sei bella” sento solamente un’irritazione sottile crescermi nello sterno, perché mi pare un’uscita sterile, un gesto premasticato, una scorciatoia linguistica per evitare di nominare le cose vere. Ecco, sempre io, davanti a quelle tre parole non dissi nulla e non alzai gli occhi al cielo.
Perché dette da lei, in quel tono privo di enfasi, in quel momento in cui non c’era niente da guadagnare né da nascondere, quella frase perdeva la sua forma smussata e diventava qualcosa di affilato, di preciso, di stranamente necessario.
Non c’era niente da aggiungere. Il bicchiere, il ritardo, la sigaretta già pronta e la sua voce che tagliava piano l’aria davanti a me: quello era tutto.
E bastava. Ed era perfetto così.
Sibylle Baier, Colour Green
Fu allora, senza un segnale particolare, senza la minima accelerazione nel respiro o nel gesto, che infilò la mano nella tasca interna della giacca, tirandone fuori un CD: custodia spessa, gli angoli leggermente rovinati, la scritta nera inclinata, Sibylle Baier – Colour Green.
Lo posò sul tavolo, accanto al bicchiere, tra il posacenere e il pacchetto di tabacco, con quella discrezione precisa che aveva sempre riservato alle cose che le stavano a cuore.
Io lo presi con naturalezza. Lo guardai un istante, sorrisi appena (più a me stessa che a lei) e lo riposi con cura nella borsa.
Non serviva dire altro.
Avevamo già detto tutto, altrove, nei silenzi, nei ritardi, nei gesti.
E quello era solo un altro frammento, un altro postludio da aggiungere agli altri.
Restare fuori scena
Un postludio sopravvive quando il suono dovrebbe essersi già dissolto, quando la stanza si svuota, quando l’ultimo spettatore si volta e se ne va.
È il margine dove le cose che non hanno più nulla da dire continuano a esistere,
dove il corpo ha già smesso di cantare ma la voce resta aggrappata alle pareti,
dove tutto ha ripreso a correre ma da qualche parte, nascosta alla vista, c’è ancora una traccia che non si arrende.
Sibylle Baier è tutta lì, in quel bordo sottile, in quel margine, nella resistenza quieta di chi non chiede ascolto ma lascia che il suono scivoli dove deve, di chi non cerca riconoscimento e proprio per questo finisce per abitare le pieghe più profonde, quelle che la superficie non sa nemmeno nominare.
Negli anni Settanta, mentre tutto si allarga, si amplifica, si mette in scena, Sibylle registra nastri in una casa normale, con un registratore a bobina che ne raccoglie la voce incrinata e il fruscio dell’aria, le dita che sfiorano le corde più per urgenza che per mestiere, le parole dette come se nessuno dovesse mai sentirle e che proprio per questo contengono, senza esibirlo, tutto il peso della vita.
Non c’è pubblico, non c’è progetto: c’è solo una donna seduta in una stanza, il buio appena fuori dalla finestra e il gesto apparentemente semplicissimo di portare la voce a un punto dove si possa reggere il silenzio.
La sua prima canzone, Remember the Day, nasce come sopravvivenza, come appiglio. Un amico la trascina via da casa, le mette un volante tra le mani e la porta lungo le Alpi, verso Genova. Non intraprendono questo viaggio per guarire la malinconia, ma per spostarsi abbastanza da iniziare a sentire il rumore del resto del mondo.
E su quella strada, su quell’asfalto senza meta, Sibylle scrive:
“Ricordo il giorno / in cui sono uscita di casa solo per comprare un po’ di cibo / pensando se io avessi dovuto o non avessi dovuto”
E in questi versi già si sente tutto: la fatica di stare, la sospensione, l’assenza di clamore, la precisione di chi racconta solo ciò che conta perché tutto il resto è superfluo.
Dopo, ci sono stati altri attraversamenti. Un paio di film con Wim Wenders, un trasferimento negli Stati Uniti, una famiglia. Eppure nulla si è disperso, nulla si è consumato, perché tutto è rimasto nella forma originale di quel gesto. Nella sua voce che non spinge, non invade, non reclama.
Trent’anni dopo, quando il figlio Robby trova i nastri, li digitalizza e li consegna a un’etichetta indipendente. Nasce Colour Green che non diventa un caso discografico, non conquista le vette delle classifiche, non genera culto né mito, ma s’infiltra sottilmente, si aggancia ai corpi, s’insinua tra le pieghe del giorno, attraversa cuffie e giradischi, si fa compagnia clandestina, diventa appartenenza silenziosa.
Ascoltare Sibylle significa sedersi accanto a qualcuno che non ha bisogno di spiegarti niente. Significa entrare in una stanza vuota e accorgersi che c’è ancora calore sulle lenzuola. Significa sentire la certezza ferma e limpida che il mondo continuerà a correre senza di te e che, in fondo, va bene così. Perché c’è una libertà testarda in questo restare ai margini, in questo non domandare attenzione, in questo lasciare che le cose vadano avanti mentre tu rimani seduta con la chitarra sulle ginocchia, le dita segnate sulle corde, la voce spezzata ma presente e quel suono che, anche quando smette, non se ne va.
Cronaca di un ritorno
Il CD era lì, infilato in fondo a un cassetto che non aprivo da anni, nascosto tra quelle cose che si conservano con cura incerta, a metà strada tra il non volerle più guardare e l’incapacità di lasciarle andare. Tra i biglietti di concerti, cartoline mai spedite, fotografie sbiadite, appunti senza un contesto. Tra tutte quelle schegge di passato che finiscono per diventare una specie di riserva affettiva sommersa, in attesa di un momento indefinito in cui, forse, sapremo cosa farne.
E l’ho trovato così, senza cercarlo davvero. L’ho tirato fuori con un gesto esitante, nello stesso modo in cui si tocca un oggetto che ha ancora addosso la temperatura delle mani che te l’hanno consegnato, e per un attimo ho capito che non era mai scomparso del tutto. Che era rimasto lì, in sospensione, a fare da cerniera tra un prima e un dopo che non ho mai saputo davvero distinguere.
Gli ho scattato una foto. Una sola, e gliel’ho mandata. Così: senza messaggi allegati, senza punti interrogativi, senza il bisogno di imbastire un pretesto.
Poche ore dopo, lo schermo si è illuminato, una vibrazione sottile e un messaggio asciutto, nudo, essenziale:
“Domani? Un caffè?”
Ed è stato lì che, per un attimo, ho pensato che forse tutto questo tempo, tutta questa distanza, tutte queste vite che abbiamo infilato nel mezzo, non avevano mai davvero cancellato la linea sottile che tiene insieme certe presenze.
Give me a smile Close your eyes Don't say a word Give me a smile And stay and weave me your part of tenderness Give me a little smile while I lie by your side Beyond words we rest So leave the best unsaid And give me your smile, for the while May it guide us through the dark Give me a little smile while you lie by my side Beyond words we rest So leave the best unsaid
Un po’ di cose belle
Piccoli postludi digitali
The Museum of Broken Relationships
Un museo online dove le persone inviano oggetti e storie legati a relazioni finite.
The Quiet Place Project
Un rifugio minimalista per spegnere il rumore digitale e “stare” nel silenzio.
Patatap
Un sito dove suoni, colori e animazioni si mischiano al tocco della tastiera.
Letters of Note
Una raccolta di lettere tenerissime, che offrono uno sguardo intimo su momenti storici e personali.
Mi taccio.
Ciao ciao
Vostra, sempre
F.