Sette bicchieri lavati a mano e altri miracoli quotidiani
Frammenti d'ordine in una casa che scricchiola
C’erano sempre sette bicchieri, disposti senza ordine apparente sul piano della cucina, tutti diversi per forma, peso e trasparenza, acquistati nel tempo, uno per volta, come si collezionano le sopravvivenze. Non per desiderio. Per necessità.
Perché ogni volta che uno si rompeva (e accadeva spesso, con quella frequenza aggressiva che hanno le cose di casa quando si decide di restare) ne veniva preso un altro. Mai due, mai un set intero, solo quello che mancava, solo quello che bastava per tornare al numero stabilito, che non era casuale né simbolico. Era semplicemente l’unico che, nella sua imperfezione dispari, sembrava contenere un ordine possibile in mezzo al caos.
Li lavava a mano ogni giorno, con la costanza di chi non ha più nulla da dire ma continua a fare, con le dita screpolate dal freddo o dal sapone, cucite a forza su quei polsi segnati da storie che nessuno avrebbe dovuto scrivere su una pelle così sottile; con i gesti rallentati dalla stanchezza o dalla distrazione, ma sempre nello stesso modo. Sempre con la stessa ossessiva attenzione al dettaglio, non per igiene né per abitudine, ma per controllo, per assicurarsi che fossero ancora tutti lì, che nessuno fosse scivolato, che non ci fossero cocci da raccogliere né frammenti sotto i mobili. Perché c’è una parte della vita, per alcune, che si tiene in piedi proprio così: contando gli oggetti, ripetendo i gesti, registrando ogni variazione, ogni crepa, ogni scompenso.
Quel lavaggio quotidiano non era rito e non era cura. Era una banalissima e muta forma di sopravvivenza pratica. Una maniera concreta per confermare la propria esistenza senza pretendere di affermarla, una disciplina interiore fatta di piccoli dettagli verificati uno a uno, giorno dopo giorno, come se la somma di quei bicchieri potesse restituire un’idea di stabilità o, quantomeno, di resistenza.
Dentro la grammatica della violenza
Nel primo trimestre del 2025, quattordici donne sono state uccise in Italia da uomini che, nella quasi totalità dei casi, avevano con loro un rapporto affettivo o familiare (partner, ex compagni, conoscenti, soggetti integrati nella quotidianità). Tra queste, i casi di Sara Campanella e Ilaria Sula, entrambe ventidue anni. Hanno avuto maggiore risonanza mediatica non per le loro specificità, ma per la violenza inequivocabile e la coincidenza temporale con cui si sono consumati: Sara, studentessa a Messina, è stata accoltellata da un compagno di corso che la molestava da due anni; Ilaria, iscritta alla Sapienza, è stata ritrovata senza vita in una valigia alla periferia di Roma.
In entrambi i casi, le motivazioni restituite dalle indagini e dal racconto giornalistico si riconducono all’interruzione non accettata di una relazione, al rifiuto interpretato come offesa, alla sottrazione vissuta come tradimento.
Le manifestazioni successive, i cartelloni con i loro nomi, le piazze piene, le richieste di una “rivolta culturale”, hanno restituito per qualche giorno l’illusione che la società fosse pronta a interrogarsi sulla struttura che rende possibile (e in larga misura prevedibile) una violenza così diffusa e così regolarmente sottovalutata. Ma, come spesso accade, la narrazione pubblica si è rapidamente spostata dalla responsabilità alla colpa individuale, dal dato sistemico all’eccezione tragica, dall’urgenza collettiva al caso isolato.
Eppure non è necessario arrivare all’omicidio per intercettare i segnali della violenza. A volte bastano i ruoli che si consolidano per inerzia, le dinamiche di controllo camuffate da cura, l’invisibilità funzionale di chi regge la tenuta quotidiana senza che le venga riconosciuto il carico. Perché esistono storie che non si raccontano mai per intero, che si leggono solo nei dettagli: oggetti allontanati, parole evitate, spostamenti minimi della soglia di sopportazione. Chi osserva con attenzione, ma soprattutto chi ha già visto e chi sa, riconosce immediatamente quella traiettoria che precede l’interruzione che è fatta di adattamento continuo a richieste implicite, di riduzione progressiva della propria presenza e dell’illusione che basti ancora un po’ di silenzio per evitare lo scontro.
In tale contesto anche il linguaggio gioca un ruolo decisivo. Le parole con cui la politica, la stampa, la società raccontano la violenza non sono neutrali ma definiscono la cornice, determinano lo sguardo, legittimano o disinnescano.
Quando il Ministro della Giustizia, durante un convegno pubblico, dichiara che l’origine di molti femminicidi sarebbe da attribuire a una “diversa etnia”, non solo contraddice i dati ufficiali forniti dal Ministero dell'Interno (secondo cui nel 2023 il 75% degli autori di femminicidi erano cittadini italiani), ma compie un’operazione retorica deliberata, che ha l’effetto di dislocare la responsabilità all’esterno, trasformando un problema strutturale interno in un rischio importato. Un trucco vecchio come il potere stesso: negare l’origine, costruire un nemico, salvare la narrazione.
E proprio a questa narrazione si aggiunge la consueta mitologia dell’amore, dove l’omicidio viene spesso descritto come l’esito di un sentimento degenerato, di una gelosia eccessiva, di un abbandono insopportabile.
Ma un uomo che uccide una donna perché lei ha deciso di andarsene non è un innamorato respinto: è un soggetto che considera il corpo dell’altro come proprietà da trattenere, gestire, punire. E ogni volta che la violenza viene raccontata come effetto del dolore, come follia affettiva, come passione deformata, si rafforza l’idea che la sottrazione, il gesto del dire no, sia di per sé una minaccia.
Shirin Neshat. Body of evidence - una mostra necessaria a Milano
Per l’artista Shirin Neshat, non è solo la violenza fisica a colpire. È lo sguardo che precede il gesto. È il modo in cui una società ti osserva per decidere cosa puoi essere e cosa no.
Iraniana d’origine, americana d’adozione, Neshat ha costruito tutta la sua opera a partire da una posizione di frontiera: l’esilio, la frattura tra mondi, la tensione fra visibile e invisibile. I suoi lavori, tra video, fotografia e installazione, non cercano di spiegare il trauma. Lo mostrano, lo incarnano, lo rendono impossibile da ignorare.
The Fury, il suo ultimo video del 2023, nasce mentre segue il processo ad Hamid Nouri, accusato di aver partecipato al massacro di migliaia di prigionieri politici in Iran nel 1988.
“Le crude descrizioni delle torture di cui veniva a conoscenza la sconvolgevano” scrive Negar Azimi nel catalogo della mostra Shirin Neshat. Body of Evidence. “Molte delle prigioniere erano state violentate pochi minuti prima dell’esecuzione. Altre, una volta rilasciate, avevano sofferto di un’angoscia inimmaginabile. Alcune si erano tolte la vita.”
Quelle testimonianze l’hanno accompagnata nel concepire una figura muta, sopravvissuta, che si aggira tra le strade di Brooklyn portando i segni visibili di una violenza sistemica: piaghe, cicatrici e un corpo che ha imparato a trattenere tutto.
Ma The Fury non è soltanto un monologo interiore, né un esercizio di isolamento visivo. La sua protagonista (inizialmente ai margini, osservata, fraintesa) trova, nel finale, una presenza plurale che la riconosce, che accoglie la sua ferita muta e le restituisce, senza bisogno di parole, una possibilità di voce.
In quel momento, la rabbia non si disperde ma si propaga e cessa di essere una condizione individuale per trasformarsi in movimento condiviso, in un gesto che rompe l’inerzia. Non è più il dolore di una sola, ma un’urgenza che chiama chiunque la incroci.
E guardare, da lì in avanti, diventa già una forma di coinvolgimento.
Il legame tra corpo e linguaggio attraversa tutta la produzione di Neshat.
In Turbulent del 1998, una cantante donna produce solo suoni gutturali, spezzati, mentre un uomo viene applaudito per la sua voce limpida.
In Women of Allah (1994–1997), mani femminili impugnano un fucile, ma la pelle è ricoperta di versi poetici scritti in farsi
“Una calligrafia che non serve a decorare,” osserva la curatrice della mostra Beatrice Benedetti, “ma a creare frizione tra sacro e profano, tra resistenza e sottomissione.”
Neshat non offre soluzioni. Non cerca di semplificare. Le sue donne non chiedono compassione, ma ascolto. Non sono simboli, ma presenze. Non sono vittime, ma voci.
“Sono soggetti narranti. Ognuna ha raccontato la propria storia.”
Le figure femminili che abitano l’opera di Shirin Neshat sono presenze attive, consapevoli, capaci di definire da sé i contorni del proprio destino. Appartengono a mondi diversi (madri, poetesse, lavoratrici del sesso, ribelli) ma tutte, in modi differenti, agiscono all’interno di contesti dominati da codici maschili, senza accettarne passivamente la logica.
Non sorprende che tra i riferimenti ricorrenti emergano nomi come quello di Forough Farrokhzad, la poetessa che ha affrontato con radicale onestà i limiti imposti dalla famiglia e dallo Stato, o quello di Tahereh Saffarzadeh, figura chiave della cultura iraniana contemporanea, che ha trovato nell’Islam un percorso personale e complesso, mai privo di tensione. Sono tutte donne che non hanno accettato la cancellazione, che hanno scelto di raccontarsi, anche a rischio della marginalità o del fraintendimento.
Nelle opere di Neshat il linguaggio visivo si struttura come un sogno interrotto: non come fuga dalla realtà, ma come dispositivo per ciò che la cronaca non riesce a raccontare. Il rallentamento del movimento, le dissolvenze, la sovrapposizione tra tempo personale e tempo storico costruiscono un vocabolario simbolico che si muove tra memoria e resistenza.
I corpi femminili, spesso vittime di violenza, non vengono rappresentati in chiave realista, ma trasfigurati in una dimensione sospesa, al limite tra martirio e rinascita, tra sogno e realtà.
In Neshat, tutte le immagini oniriche non sono evasione, ma una forma indiretta di lotta, un discorso politico travestito da poesia, capace di eludere la censura ma non la responsabilità.
Un messaggio che, come scrive Benedetti,
“si sottrae a riferimenti politici troppo evidenti, ma che di fatto è una voce schierata, consapevole, sussurrata all’orecchio di una popolazione in dormiveglia, quella iraniana quanto quella americana, entrambe anestetizzate dalla propaganda.”
L’arte di Neshat lavora sui margini: tra memoria e visione, tra esperienza individuale e tensione collettiva. E nello spazio instabile fatto di sogni, simboli, fallimenti s’inscrive una politica del corpo che non chiede interpretazioni, ma presenza.
Ecco perché quella ospitata al PAC non è una mostra come le altre.
È un’esposizione necessaria, che ci obbliga a guardare dove normalmente distogliamo lo sguardo.
Perché il dolore, nelle sue immagini, non è mai fine a sé stesso. È materia viva. È il corpo che insiste. È linguaggio che sopravvive alla censura.
Ed è, ancora una volta, una domanda che non ci lascia scampo: Se la rabbia è visibile, perché facciamo finta di non vederla?
Forse perché sappiamo benissimo di chi è. E ci somiglia troppo.
Dal 28 Marzo 2025 al 08 Giugno 2025
MILANO: PAC - Padiglione d'Arte Contemporanea
INDIRIZZO: Via Palestro 14
ORARI: 10— 19:30 Giovedì 10— 22:30 Lunedì chiuso
CURATORI: Diego Sileo e Beatrice Benedetti
SITO UFFICIALE: http://www.pacmilano.it
Ciao ciao
vostra, sempre
F.
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