Il giovedì sera, poco dopo le diciannove e un quarto, arrivo sempre lì.
Non abbiamo mai stabilito nulla, ma lui tiene da parte il mio tavolo: quello in fondo, contro la parete, dove la presa funziona a metà e bisogna tenere il cavo in una certa posizione perché il portatile non si spenga all’improvviso.
Lo sa. Come sa che scrivo, che ho bisogno di luce morbida e rumore di fondo, che bevo solo birre maltate e che non chiedo mai la stessa cosa due volte. Non perché mi piaccia cambiare, ma perché preferisco che sia lui a decidere, perché mi aiuta a conoscerlo.
Ogni volta, quando arrivo, ha già il bicchiere pieno per metà. “È una tedesca, scura ma gentile.” E conclude “Se non ti piace, la bevi lo stesso.” Me lo dice sempre, con lo stesso tono, senza aspettare risposta. La posa accanto al computer e si allontana. Non mi chiede come sto. Non s’informa sui progressi. Si fida che, prima o poi, tirerò fuori qualcosa. E io mi fido che la birra sarà giusta, o almeno giusta abbastanza per iniziare.
Mentre sistema due bicchieri, mi lancia una frase sopra la spalla: “Hai già in mente di chi scrivi, stavolta?” Io scuoto il capo. Non lo so mai. E lui sa già anche questo.
A metà turno, però, succede sempre. Quando la sala si svuota un po’, si siede al mio tavolo, si versa la mia stessa birra e mi dice: “Dai, fammi sentire dove sei arrivata.”
Allora apro il file, leggo piano. Non tutto, solo un pezzo. Lui ascolta senza interrompere, con quella concentrazione tranquilla di chi non vuole correggerti, ma solo esserci mentre la cosa prende forma. A volte annuisce. A volte resta zitto e beve. Dice che gli piace sentirmi leggere perché anche quello che non capisce, a voce, gli sembra più vero. Poi parliamo di tutto e di niente e torna al bancone, riprende da dove aveva lasciato, senza dire nulla.
Intanto io ricomincio a scrivere, e la birra si scalda, e il computer si riaddormenta, e tutto scorre come se non avesse bisogno di spiegazioni.
Alla mia sinistra, stasera, c’è una coppia. Non so se si amino ancora, o se si amano appena, o se semplicemente si sono abituati a condividere lo stesso panino. Ma lo fanno con quella naturalezza che non cerca grazia, solo precisione. Lei prende la parte con più pomodoro, lui quella con più formaggio. Nessuno dice “prendi tu”, nessuno fa il gesto teatrale del “dividiamolo”. Tagliano. Si passano i pezzi. Quando lei parla, lui la guarda a metà. Quando lui tace, lei gli sistema la manica. È una tenerezza asciutta, senza cerimonia. Quella che resta quando tutte le parole sono già state dette mille volte, e non serve ripeterle.
E mentre scrivo, mentre li guardo senza volerli raccontare ma lasciando che entrino nella pagina comunque, penso che forse è tutto qui: la fiducia non è una dichiarazione. Non è un gesto eccezionale. È sapere che l’altro farà quello che ha sempre fatto. Che si siederà con te a metà serata per ascoltare una bozza. Che berrà la tua stessa birra. Che prenderà la parte sbagliata del panino perché sa che a te piace l’altra. Che sistemerà la tua manica, senza nemmeno farci caso.
Intorno, altri tavoli raccontano la stessa storia in forme diverse: una bambina che dorme appoggiata al padre, e lui che le tiene la testa ferma con una mano mentre continua a parlare con l’amico; un casco lasciato sul bancone, nessuno che lo guarda; un cellulare acceso e ignorato. Tutti, in modi minuscoli, stanno dicendo la stessa cosa: mi affido. A un’abitudine, a una persona, a un gesto che si ripete. E la cosa sorprendente è che quasi sempre funziona. Non per magia. Ma perché ogni settimana, ogni sera, ogni giovedì, ci sono persone che fanno la stessa cosa, allo stesso modo, e in quel gesto (silenzioso, ripetuto, mai esibito) si tengono vivi.
E io, da questo angolo storto con la presa traballante, scrivo. Scrivo senza sapere dove andrà a finire. Ma sapendo che, anche stasera, qualcuno mi ascolterà. Anche solo un pezzo. Anche se non capisce tutto. Anche se non ho ancora deciso di chi sto parlando.
Sempre di spalle, sempre al centro
Quando penso alla fiducia, quella vera, quella che non si annuncia ma si ripete, penso a Ida. Alla sua nuca fissa, agli abiti scuri, alla postura minuta che attraversa decine di stanze senza mai occupare davvero il centro. Penso al modo in cui resta nelle tele di Vilhelm Hammershøi, suo marito, come un punto fermo che non pretende attenzione ma costruisce lo spazio. Ida non reclama voce. Non guarda quasi mai lo spettatore. Eppure tiene in piedi l’intera immagine. Come fanno certi gesti minimi, certi legami discreti, che sanno restare anche quando tutto intorno cambia.
Ida Hammershøi non è una musa. Non nel senso in cui l’arte occidentale ha costruito questa figura: una donna bella, spesso giovane, quasi sempre muta, idealizzata o erotizzata, pensata come fonte ispiratrice passiva, e quasi mai agente della propria immagine. Nei quadri di Hammershøi non c’è nulla di tutto questo. Ida non è lì per abbellire, per elevare o per sedurre. È lì perché c’è, perché abita, perché fa parte dello spazio: come il tavolo, la finestra, la porta socchiusa.
La sua figura non viene messa in scena con intento celebrativo. E proprio per questo diventa centrale: perché non ha bisogno di occupare il centro per esistere, perché la sua presenza non è mai spettacolare, ma essenziale. Ida è co-autrice silenziosa dell’opera. È parte attiva dell’ambiente che il pittore osserva e trasforma in immagine.
In questo, la sua presenza è più forte di qualsiasi ispirazione convenzionale. Non c’è idealizzazione. Non c’è distanza tra l’artista e il soggetto. C’è una convivenza. C’è una fiducia quotidiana. Una condivisione del tempo e dello spazio che non ha bisogno di essere estetizzata per essere reale.
Hammershøi non ha bisogno di “trovare” la bellezza in Ida: la riconosce nei suoi gesti, nel modo in cui si siede o si allontana, nel fatto stesso che, pur restando ai margini, è sempre lì.
C’è una fedeltà silenziosa nel modo in cui l’artista la ritrae, più volte, sempre diversa eppure sempre uguale. È un linguaggio fatto di assenze in cui la ripetizionen è una dichiarazione muta: ci sei. Sei qui, ancora. E tanto basta.
Nel corso degli anni, Ida appare in decine di interni. A volte di spalle, a volte di profilo. Quasi mai di fronte. È figura e insieme soglia: non la vediamo mai del tutto, ma è attraverso di lei che guardiamo. E la casa (quel microcosmo borghese, silenzioso, rarefatto) si struttura intorno al suo corpo. Un corpo che non esibisce, non seduce, non spiega. Ma che abita, con una naturalezza testarda, gli spazi chiusi, i muri spogli, le porte socchiuse.
Nella loro casa al secondo piano di Strandgade 30 (una delle più riconoscibili dell’intera storia della pittura nordica) Hammershøi dipinge stanze spoglie, con pochissime decorazioni, con pavimenti graffiati e pareti grigie, sempre diverse nel tono ma simili nella struttura. Quelle stanze, a guardar bene, non sono mai vuote: sono riempite dal tempo che ci passa dentro. Un tempo che non urla, che non pretende climax, ma che si deposita piano, come la polvere sugli angoli. E Ida è parte di quel tempo.
Secondo Poul Vad, il principale biografo di Hammershøi, la pittura dell’artista danese è un’operazione di sottrazione. Non tanto nel senso moderno di minimalismo, ma come forma di rigore interiore: ogni dettaglio superfluo è cancellato, ogni concessione alla retorica emotiva viene espulsa. Quello che resta è ciò che non può essere tolto. E Ida, in questo processo, è l’unico elemento umano che resiste alla cancellazione.
E con lei resistono anche i colori, ma solo quelli che hanno qualcosa da dire. Perché, contrariamente a quanto si possa pensare, i quadri di Hammershøi non sono grigi. O almeno, non solo. Dietro la sua tavolozza rarefatta si cela una complessità cromatica sorprendente, emersa con chiarezza grazie alle analisi scientifiche condotte nell’ambito del progetto Vilhelm Hammershøi Digital Archive (Statens Museum for Kunst, Copenaghen): le radiografie e gli studi a riflettografia infrarossa hanno rivelato la presenza sistematica di pigmenti come il blu di cobalto, il giallo di cadmio, i verdi al cromo, e perfino il rosso carminio, utilizzati in stratificazioni sottili per generare quella gamma quasi impercettibile di toni grigio-azzurri, caldi, lattiginosi, che attraversano tutta la sua produzione.
Il bianco stesso non è mai puro: è costruito a partire da pigmenti opachi come il bianco di zinco e di piombo, steso in più mani per dare profondità. Il risultato è una vibrazione continua, visibile soprattutto negli interni: un’alternanza controllata di luce e ombra che dà consistenza allo spazio, senza mai appiattirlo. Come ha scritto Felix Krämer, la tavolozza di Hammershøi è “musicale”: pochi colori, ma modulati con tale precisione da evocare variazioni minime, quasi timbriche, in risonanza con la luce e la superficie.
In questo senso, anche l’Italia ha un ruolo preciso: non come esplosione, ma come conferma. Hammershøi viaggia in Italia con la moglie tre volte, nel 1893, nel 1902 e nel 1907. Visitano Venezia, Firenze, Roma, Paestum. Ma nei suoi appunti non si trovano parole di stupore. Non c’è traccia di quella meraviglia luminosa che l’Italia ha suscitato in generazioni di pittori nordici. Per Hammershøi, l’Italia è una soglia, non una rivelazione. È lo spazio che gli permette di tornare alla propria misura. Negli affreschi di Masaccio e Beato Angelico non cerca l’emozione, ma la struttura. La purezza delle architetture, la logica delle luci, la capacità del silenzio di essere più potente della narrazione.
Il suo unico dipinto romano (l’interno della chiesa paleocristiana di Santo Stefano Rotondo) è un manifesto di questa visione: non ci sono persone, non ci sono affreschi, non c’è dramma. Solo colonne, finestre, luce. Ma è una luce trattenuta, che non esplode, che s’insinua come una presenza mentale. Il centro della composizione non è il trionfo architettonico, ma sempre il margine: l’angolo da cui guardare. Perché è lì che la pittura accade. È lì che si stabilisce quel rapporto intimo con lo spazio che non ha bisogno di effetti.
L’Italia, per Hammershøi, è stata questo. È stata un luogo di distanza e di ritorno. Di misura. Di sobrietà estrema. E forse è per questo che, negli anni, continuerà a conservarne le tracce tra le pareti della propria casa: una stampa del Perugino, un disegno di Signorelli, forse persino un calco da Desiderio da Settignano.
In fondo, come accade con Ida, anche con l’Italia Hammershøi costruisce una relazione fondata sulla fiducia. Una fiducia quieta, discreta, che non ha bisogno di dichiarazioni né di centralità, che non cerca l’effetto ma si deposita con il tempo. E proprio per questo, quando viene infranta, lascia un vuoto più profondo.
Eppure, proprio quella fiducia (tanto silenziosa quanto tenace) s’incrina nel 1907, durante l’ultimo viaggio italiano della coppia. A Firenze, Vilhelm e Ida vengono arrestati per errore: accusati ingiustamente di contrabbando, vengono trattenuti per un breve periodo e poi subito rilasciati, dopo aver chiarito la loro totale estraneità ai fatti. Nessuna colpa. Solo un abbaglio. Ma sufficiente a incrinare qualcosa. Non ci sono proteste. Solo un silenzio definitivo: non torneranno mai più.
Nessuna dichiarazione d’addio, nessun gesto eclatante. Soltanto l’assenza. Come se la relazione costruita con pazienza tra un artista e un Paese che aveva accolto la sua pittura senza clamore, ma con naturalezza, si fosse interrotta all’improvviso, senza possibilità di essere ricucita.
E nell’arte, forse, è proprio questa la forma più difficile da sostenere: esserci senza farsi vedere. Restare senza troppo rumore. Ma anche sapere quando non si può più tornare.
La fiducia, allora, non è solo tra artista e soggetto. È nella pittura stessa. Nel credere che un gesto minimo come un’ombra appena accennata, una mano poggiata sul legno, un abito nero che attraversa due stanze possa contenere più verità di qualsiasi dettaglio. È un atto di fede radicale nella sobrietà, nella pazienza, nella ripetizione. Nella possibilità che un’immagine ridotta all’osso possa ancora parlare, senza urlare.
Felix Krämer, nel suo studio dedicato agli interni di Hammershøi, nota come la casa diventi metafora dell’interiorità, ma anche luogo di resistenza. Non c’è isolamento, ma concentrazione. Non silenzio, ma attesa. E ogni figura che vi si muove suggerisce una storia che non ha bisogno di essere detta.
Ida, in questo senso, è la più radicale delle protagoniste: è colei che permette all’opera di esistere senza mai rivendicarla. È la donna che non reclama centralità ma diventa cardine. È la presenza che non salva, non consola, non compensa, ma che resta.
E in quel restare che non chiede spiegazioni, in quella fedeltà muta che non pretende testimoni né epiloghi, c’è una forma di fiducia che non si proclama e non s’implora: si consuma in silenzio, come una brace sotto la cenere.
Non cerca risposte, non costruisce ritorni.
È una fiducia che accetta il fraintendimento, la distanza, perfino l’addio, pur di non cedere all’urgenza di giustificarsi.
Una fiducia che non si celebra. Si lascia dietro.
Come una lettera mai spedita, come una stanza chiusa a chiave, come un abito lasciato appeso in una casa abbandonata.
Non è meno vera. Solo, non fa rumore.
Dove vedere Hammershøi
Chi vuole vedere da vicino questa pittura che sembra respirare nel silenzio, fatta di soglie, porte socchiuse e presenze che non reclamano attenzione, ha tempo fino al 29 giugno 2025. È in corso a Palazzo Roverella, a Rovigo, la prima mostra italiana dedicata a Vilhelm Hammershøi, e sorprendentemente anche l’unica a livello internazionale prevista in questi anni.
Il titolo è Hammershøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia, e non è una promessa: è un invito a perdersi. Più di 100 opere raccontano non solo l’artista danese, ma anche i suoi dialoghi muti con altri pittori del Nord e con una certa idea di Italia fatta non di luce abbagliante, ma di misura, rigore, pause.
Date: dal 21 febbraio al 29 giugno 2025
Dove: Palazzo Roverella, Rovigo
Info e prenotazioni: 0425 460093 – info@palazzoroverella.com
È una mostra curata da Paolo Bolpagni, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, e sostenuta da Intesa Sanpaolo. Ma soprattutto, è un’occasione rara per vedere da vicino la pittura più silenziosa d’Europa.