Il peso delle porte chiuse
Di sicurezza, disobbedienza e architetture che non chiedono di correggerti
A Milano chiudo la porta con quattro mandate e poi verifico di averlo fatto bene.
Non è paranoia o reale urgenza, ma un gesto che, ripetuto ogni sera nello stesso ordine, è diventato parte della grammatica dell’abitare.
Maniglia, scatto, conferma.
Un piccolo rito di controllo che permette di trasformare uno spazio qualsiasi in qualcosa che assomiglia, anche solo per un attimo, all’idea di casa.
Qui a Vienna, invece, la mia porta si chiude con una chiave che sembra uscita da una casa delle bambole: sottile, leggera, quasi finta. Il tipo di serratura che non richiede competenze per essere violata, solo una decisione.
Una porta che potrei forzare anch’io, se lo volessi davvero. La prima volta mi ha fatto ridere. La seconda, l’ho fotografata. Poi ci ho attaccato il portachiavi con il guanto di Thanos, come se quella mano in miniatura potesse in qualche modo riequilibrare il potere nel mondo, o almeno sul pianerottolo.
La notte, però, ho comunque aperto il primo cassetto disponibile e l’ho lasciato spalancato davanti alla porta, inclinato quel tanto che bastava a renderne l’apertura scomoda. Un ostacolo del tutto inefficace dal punto di vista strutturale, ma evidentemente imprescindibile da quello psicologico. Non tanto per impedire a un malintenzionato di entrare, quanto per contenere l’idea stessa che qualcuno potesse farlo senza il mio consenso.
Non una vera strategia, ma un codice appreso negli anni, sedimentato nei muscoli prima ancora che nella ragione.
E, in fondo, anche un tentativo ingenuo di deterrenza immaginaria: la speranza, nemmeno troppo nascosta, che un eventuale ladro, trovandosi davanti quella trappola goffa e imprevista (un cassetto bianco di legno messo di traverso come un’imboscata domestica) potesse esitare un istante. Pensare qualcosa tipo: “Questa tizia è troppo ingegnosa. Chissà quali altri marchingegni letali ha disseminato per casa.”
E andarsene. Per prudenza. Per rispetto. Per timore di un sistema di difesa più sofisticato di quanto appaia.
O semplicemente perché, a volte, basta una minima dissonanza per far saltare uno scenario predefinito.
La porta è rimasta chiusa. Nessuno ha provato a entrare. Ma non è nemmeno questo il punto. Il punto è che mi sono accorta, per la prima volta con una chiarezza quasi imbarazzante, che non avevo mai davvero pensato alla sicurezza come a una sensazione. Per me era sempre stata un dispositivo, una tecnologia, una soglia meccanica da rinforzare, mai qualcosa che potesse essere misurato in base al respiro, all’attenzione dell’altro, alla possibilità di lasciarsi vedere senza difese.
E ci vuole tempo per disimparare la sorveglianza. Anni, a volte decenni, per disattivare il meccanismo che ti fa voltare ogni volta che passi davanti a uno specchio, per assicurarti che nessuno ti stia seguendo. Per camminare senza ascoltare i passi dietro di te. Per non fare mentalmente il percorso di fuga ogni volta che entri in una stanza. Per non chiudere il pugno anche quando stai solo cercando le chiavi in fondo alla borsa.
Ci vuole tempo perché il corpo creda davvero di essere al sicuro. E non si tratta di paure eccezionali, ma di quella tensione ordinaria e costante che si deposita nelle articolazioni, nella postura, nella soglia di attenzione. Una forma di resistenza continua, quasi impercettibile, che permette di funzionare. Ma non di riposare.
È anche per questo che, quella prima notte, ho lasciato il cassetto di fronte alla pota spalancato. Non tanto per evitare un’intrusione, quanto per guadagnare il tempo necessario a convincere il corpo che, almeno per qualche ora, potesse abbassare la guardia. Non tutto insieme, non per sempre, ma abbastanza da lasciarsi attraversare dal silenzio. Dalla possibilità di stare.
E qualcosa, in effetti, è cambiato. Non nell’architettura esterna, ma in quella interna. Il sonno è arrivato prima del previsto. Non c’è stato alcun rumore improvviso. Nessuna sequenza mentale da simulare in caso d’emergenza. Solo una porta leggera e un cassetto aperto. Una chiusura imperfetta, ma sufficiente. Un accordo provvisorio tra me e il mondo.
Ovviamente non sarebbe corretto affermare che le case viennesi siano più aperte, più accoglienti, più leggere di quelle italiane. Non lo sono sempre, non ovunque. Ci sono porte pesanti anche qui, cancelli automatici, videocitofoni, androni anonimi che non invitano a restare. Perché, d’altronde, non esiste una città immune alla paura.
Eppure, in certi appartamenti, in certi quartieri, in certe ore, qualcosa cambia. C’è una leggerezza nei passaggi, una fiducia nel lasciare gli spazi intermedi non del tutto blindati. Si tratta di una diversa soglia di allerta. Di un’idea di sicurezza che non coincide sempre con la separazione netta: alcuni cortili restano aperti fino a tardi, alcuni portoni non si chiudono da soli e alcuni interni sembrano abitati più che sorvegliati.
È una questione sottile, quasi impercettibile, che riguarda soprattutto il modo in cui lo spazio viene abitato. E lì, dentro quella porosità, ho sentito qualcosa somigliare alla possibilità di esistere senza difese costanti. Non di essere protetta, ma di non essere minacciata. Non di escludere il fuori, ma di non doverlo temere.
Contro la linea retta
Nel cuore di Vienna esiste un condominio che non somiglia a nessun altro. Si chiama Hundertwasserhaus ed è stato progettato da Friedensreich Hundertwasser, artista e architetto visionario che ha passato la vita a combattere l’idea moderna di ordine, funzionalità e simmetria.
Per lui l’architettura non doveva rassicurare, ma liberare.
Non doveva incasellare il corpo nello spazio, ma seguirlo. Ogni muro doveva piegarsi alla vita, non il contrario.
Nelle sue case non esistono linee rette, né finestre uguali. Il pavimento è volutamente irregolare, perché “la linea retta è empia, disumana, incompatibile con la natura.” Le facciate sono colorate, le superfici s’incurvano, gli alberi crescono dai balconi. Perfino le scale sembrano muoversi con lentezza, come se anche l’architettura potesse respirare.
Hundertwasser credeva che l’uomo avesse diritto a cinque pelli: il corpo, i vestiti, la casa, l’identità sociale e la terra. E che tutte queste pelli dovessero potersi esprimere, proteggere, trasformare. E la casa, in particolare, non doveva essere una gabbia o una macchina, ma un’estensione del corpo. E quindi doveva necessariamente presentare finestre asimmetriche, curve ovunque e angoli che uniscono.
Il suo progetto più noto, l’Hundertwasserhaus, venne costruito tra il 1983 e il 1985 nel distretto di Landstraße, ed è ancora oggi abitato, ma è anche uno spazio politico e un manifesto concreto contro l’uniformità. Per Hundertwasser, ogni finestra doveva appartenere alla persona che ci vive dietro, ed essere diversa. La casa doveva poter essere modificata, arricchita, personalizzata. Doveva essere viva.
E non era solo una questione estetica. Era un’idea precisa di libertà.
“L’uomo ha il diritto di sporgersi dalla propria finestra e di ridipingere il muro intorno fin dove arriva il braccio” diceva.
Era il suo modo per ricordare che anche lo spazio abitato è un linguaggio. E che, se tutti parliamo lo stesso, non stiamo più veramente parlando. Ci stiamo solo adattando.
Dentro questo assurdo spazio non c’è silenzio, e meno male. La Kunst Haus non è un museo per chi bisbiglia, non pretende reverenza, non chiede di camminare in punta di piedi. Il pavimento sale, scende, s’inclina, ti costringe a cercare un equilibrio che non si raggiunge mai del tutto. Non perché potresti inciampare, ma perché ti ricorda che sei un corpo e non una proiezione. Un corpo vivo, sbilanciato, imperfetto. Dispari.
Le pareti sono spugnose, le finestre tutte diverse. Alcune troppo alte, altre rasoterra, qualcuna tagliata di sbieco, come se l’architetto avesse preferito l’infanzia alla logica. Non c’è simmetria, né pulizia formale. C’è colore, sì, ma c’è anche sporco. E c’è vita. Vita che non si offre come ornamento, ma come presenza.
Al centro, in una sala piena di luce sbilenca, ci sono tavoloni lunghi, ruvidi, segnati dal tempo. Su quei tavoli, c’è chi scrive, chi mangia, chi parla a voce alta. Nessuno ti guarda. Nessuno ti misura. Nessuno si aspetta che tu reciti la parte del visitatore educato. Perché il Kunst Haus non è un altare. È un rifugio. Uno spazio da abitare, non da attraversare con le mani dietro la schiena. Ti ci puoi sedere male, scomposta, con la schiena contro il muro, la gamba sotto il sedere, lo zaino come cuscino. Puoi restare ore, o non fare nulla. Nessuno ti invita a uscire. Nessuno ti fa sentire di troppo.
Hundertwasser non costruiva per stupire. Non cercava l’applauso. Costruiva per ribellarsi. Alle case seriali, alle finestre tutte uguali, ai pavimenti lisci e disinfettati, ai muri neutri. Diceva che l’architettura funzionale è una forma di violenza: costringe il corpo ad adattarsi allo spazio, invece di lasciarlo essere. E allora lui immaginava spazi che si adattassero al corpo. Anche quando quel corpo è stanco. Anche quando è curvo, goffo, fragile. Anche quando non si sente legittimato a occupare posto.
Aveva piantato alberi sui balconi. Li chiamava “alberi inquilini”. Diceva che pagavano l’affitto in ossigeno e che avevano diritto, anche loro, a guardare il mondo fuori. Che miglioravano l’umore della casa. E aveva ragione. Ancora oggi, quegli alberi respirano con l’edificio, lo tengono vivo. Sono la prova che un’utopia abitabile può esistere, se la si lascia crescere piano, senza costringerla a dimostrare qualcosa.
E poi quella frase, storta, sgraziata, scritta in grande su un muro nero:
THE STRAIGHT LINE IS GODLESS
La linea retta è senza Dio.
Lì ho capito tutto. Che questo non è un museo. Non è architettura. È una dichiarazione d’intenti. Un modo di stare al mondo che rifiuta la finzione della forma. Un manifesto: vivere senza fingere di essere dritti.
E io, lì, tutta storta, scomposta, con la maglietta fuori posto e la mente affollata, mi sono sentita finalmente a casa. Ma non una casa rassicurante, non un rifugio caldo e ordinato.
Una casa disordinata, irregolare, con l’intonaco che cade e l’aria che sa di umido e utopia. Una casa che non ti chiede di guarire. Che non ti chiede niente, se non di restare.
Tutto sembra accettarti per come sei: un po’ sbilenca, un po’ sbagliata, con il cuore in retromarcia e le ginocchia sbucciate da troppe cadute. Ma ancora capace di stare, anche senza capire. Di sederti per terra, anche se non c’è tappeto. Di appoggiare la schiena dove fa male. Di dire “va bene così. Va bene anche se traballa. Anche se sporca. Anche se non sa dove andare a finire.”
Perché forse è questo il punto: non cercare una linea retta, ma una base d’appoggio. Anche provvisoria. Anche scassata.
Un posto dove il corpo non deve giustificarsi, dove la mente può sbandare, dove l’anima (quando ancora ce n’è una) può smettere di fingere.
E se questo spazio esiste, allora sì, anche una come me può restare. Storta, ma intera. Viva, anche nel disordine.
E tutto il resto, che vada pure dritto. Qui non serve.
Bello. Mi sono ritrovata in questa parole...