É probabile che abbia finito le esse
Di regole piegate, strisce che danzano e una bambina che inventa il mondo con una zeta
Questa puntata di Note a Margine è sponsorizzata da Fondazione Pistoia Musei, che ringrazio, anche qui, per l’incrollabile fiducia.
Non ha detto forse, non ha detto può darsi, e nemmeno non ci sono più. Ha detto “È probabile che io abbia finito le esse, zia”. Come se ogni parola avesse un posto preciso, come se la lingua fosse un campo minato da attraversare con leggerezza e attenzione, e lei lo sapesse già, a quattro anni, senza bisogno che qualcuno glielo spiegasse. Mi ha spiazzata. Non tanto per la stranezza, quanto per l’esattezza di quel preciso aggettivo. Mi ha spiazzata quella fiducia cieca e leggera che stava dentro alla parola probabile. Un’ipotesi gentile che non pretende nulla, ma aspetta che qualcosa accada.
E io, che con le parole ci lavoro e ci vivo, che le studio, le correggo, le rifinisco, lì per lì ho pensato che quella scelta fosse un caso, un gioco o una coincidenza. Ma non lo era: con Alyssa non lo è mai. Lei pesa tutto. Non per paura, ma per rispetto di tutto ciò che sembra non richiedere attenzioni. E ogni volta che parla, sento che la cosa migliore che posso fare è farmi più piccola possibile e imparare.
Perché quello che lei fa non è cercare la parola giusta, quella corretta secondo un dizionario, ma quella giusta per lei in quel preciso momento. Non quella che si dice per abitudine, ma quella che dice davvero. È come se sentisse già che ogni parola è un atto, e che ogni atto ha conseguenze. E allora sceglie, non per precauzione, ma per fedeltà. A sé stessa. A quello che sente. A quello che vuole costruire.
E quando quella parola non basta, o non c’è, o manca una esse, lei non si ferma. Non chiede aiuto. Non si arrampica su scuse banali. Semplicemente, inventa.
“Facciamo finta che la zeta sia una esse”, ha detto. Cercava di scrivere il suo nome con le perline, infilate una a una nella collana che stava costruendo. E ha pronunciato quella frase con la semplicità disarmante di chi non immagina ostacoli dove esiste una possibilità.
“Trottola, ma sarebbe sbagliato.” le ho risposto io, presa da un riflesso adulto che ancora crede che le cose debbano avere un senso prima di esistere. “Non ha più senso scrivere il diminutivo del tuo nome? Scriviamo solo Aly.”
Lei mi ha guardata esterrefatta, con quegli occhioni che hanno il colore del mare della Sardegna da dove veniamo e da dove, forse, abbiamo entrambe imparato a lasciare che le cose vadano dove vogliono. “No, zia Franci. Non ha più senso quello che mi stai dicendo.”
I boccoli le svolazzavano sul viso, dorati, come se fossero stati prima disegnati col gesso e poi bagnati dalla pioggia. Ho riso. Aveva ragione. Ha sempre ragione. Ma non perché voglia averla: perché la cerca senza voler per forza vincere.
E allora ha continuato a infilare perline, senza fretta, senza alcun senso di mancanza. Perché lei lo sa già che anche gli errori, se tenuti con dolcezza, possono diventare forma. Che il linguaggio non serve solo a dire il mondo, ma a crearne uno. E che il gioco, quando è fatto sul serio, è una cosa di gran lunga più affidabile della realtà.
Se il marmo si piega al vento
A Pistoia, in una piazza dove il marmo racconta ancora di una sobrietà che sa farsi potere, e il loggiato del Palazzo dei Vescovi custodisce da secoli la promessa di un ordine che non ha mai ceduto all’eccesso, l’artista Daniel Buren ha portato un gesto che è insieme ferita e carezza. Una nota dissonante infilata con tale precisione nella partitura del luogo che pare sempre essergli appartenuta.
Le strisce bianche e nere, larghe 8,7 centimetri, nate da un tessuto industriale tanto umile quanto inflessibile nella sua ripetizione, non si accontentano di ornare il loggiato. Lo attraversano. Lo mettono in tensione.
E le arcate che reggono il palazzo, trovano nella sequenza ondeggiante di Buren un interlocutore muto. Un compagno che disturba pacatamente senza bisogno di sfidare. Una vibrazione a margine, simile all’incresparsi di un tessuto sulla pelle, a quel tremore contenuto che attraversa le cose quando sembrano immobili e invece stanno già cedendo di un millimetro.
È proprio in questo scarto, tra lo statico e il cedevole, tra l’inflessibile e il fragile, che si scopre che l’opera non è un semplice intervento, non è un ornamento. È una lama sottile infilata tra le ossa della pietra, un respiro che scava tra le pieghe di un corpo abituato a trattenersi. Il palazzo, messo di fronte a quella versione di sé che trema, si piega, si torce al vento: non può più fingere di essere intatto. Solo sentirsi osservato, spostato, risvegliato dal proprio riflesso instabile.

Il bianco e nero scava, rosicchia il bordo tra controllo e abbandono. E il loggiato, per un solo istante, non è più monumento. È carne. È fianco scoperto. È attesa.
Chi guarda con attenzione si accorge che lo scontro non è tra forme, ma tra stati.
Da una parte la pietra che vuole rimanere pietra. Dall’altra il tessuto che non smette di cercare una fuga, un ripiegamento, una torsione. E in mezzo, nel punto esatto dove le due nature si sfiorano, si apre una crepa minuscola. Non si vede, non si misura, ma la si sente. Si sente come un cuore che accelera senza rumore, come si sente un respiro che cambia ritmo nell’oscurità.
E in quella sospensione, in quell’attimo esatto in cui la città smette di esserci solo per sé stessa e si apre all’altro, forse si nasconde il gesto più radicale e insieme più tenero di Buren. Un gesto, questo, che non cerca di lasciare una traccia prepotente, ma di insegnare a guardare meglio ciò che c’era già.

E chi può, dovrebbe andarci davvero a vedere come il tessuto abita le pieghe del marmo, come il vento faccia tremare l’ordine e come un gesto leggero possa trattenersi senza mai scomparire. Perché opere non si raccontano da lontano. Si attraversano. Si abitano con lo sguardo, con il corpo, con quel minimo cedimento che basta per sentirsi parte del luogo, anche solo per un momento.
La mostra s’intitola Fare, Disfare, Rifare e puoi visitarla fino al 27 luglio 2025. Tutte le info qui.
Fare, disfare, rifare. La poetica di Buren
Quello che accade davanti al Palazzo dei Vescovi è il cuore stesso della pratica di Daniel Buren. Le sue strisce verticali diventano uno strumento visivo: non più solo forma, ma azione. Un gesto che attraversa il tempo, la materia, lo spazio. Dal 1965 a oggi, Buren non ha mai smesso di muoversi sul bordo tra rigore e libertà, tra ripetizione e variazione.
Il motivo a bande è un dispositivo, una lama, una grammatica essenziale capace di incidere ogni superficie che tocca. Si riconosce nei dipinti degli anni Sessanta, dove le strisce cancellano il gesto dell’artista e mettono al centro la pura tensione tra pieno e vuoto. Nei lavori tridimensionali, negli specchi, nel plexiglas, nella carta, nei tessuti, dove lo spazio diventa una membrana viva, mai passiva.
Buren definisce questa pratica in situ. Significa che l’opera non è un oggetto che si può spostare, un feticcio trasportabile, ma nasce per un luogo preciso, esiste solo lì. Respira con l’ambiente. E senza quel respiro, non c’è.

C’è sempre un rapporto di attrito tra la regola e il contesto. Non è mai pacificazione, mai armonia. È un gioco nervoso, un braccio di ferro sottile. Lo si vede nella struttura Découpé / Étiré, ripensata per la corte interna di Palazzo Buontalenti, che sembra allungarsi e contrarsi come un organismo incastrato nel proprio scheletro. Lo si vede nelle cabane éclatées le “capanne esplose” che, mostrando senza pudore la propria ossatura, sezionano lo spazio, rompono la compattezza architettonica per aprirla in un ventaglio instabile di forme e soglie nuove.
E ancora lo si vede nei giochi di luce e colore delle installazioni più recenti, dove i prismi e i led riflettono, distorcono, amplificano il luogo che li contiene. E il colore non è mai solo colore. È un riflesso che macchia il muro, una proiezione che vibra sulla pelle dello spazio.
La poetica di Buren è un continuo fare, disfare, rifare. Non per capriccio, non per puro esercizio formale, ma per riaffermare che l’arte è tutt’altro che statica. È processo.
Non ci sono opere definitive. Ci sono variazioni, mutazioni, riprese. Le sue creazioni sono presenze vive che, cambiando luogo, cambiano anche pelle. E chi guarda non può semplicemente contemplare: deve riposizionarsi, ridefinire il proprio sguardo, trovare un altro centro.
In fondo, il gesto di Buren è vicino a quello di Alyssa. C’è una regola, e dentro la regola, una possibilità di deviazione. C’è una struttura, e dentro la struttura, un margine per il respiro. C’è disciplina, e dentro la disciplina, uno spazio per l’invenzione.
E forse è qui che la sua arte si fa davvero universale: nel ricordarci che anche ciò che appare più saldo, più ripetitivo, più definito, contiene sempre la possibilità di uno scarto, di una piega, di una leggerezza che attraversa il rigore.
Farsi piccoli
Buren, come Alyssa, non chiede di essere spiegato. Non pretende un perché. Le sue strisce si limitano a stare, a oscillare, a incrinare appena la superficie di ciò che sembra intoccabile. E questo basta.
Il marmo resta marmo, ma conosce, per un istante, il fremito della stoffa.
La città resta città, ma accetta di respirare.
Il palazzo resta palazzo, ma scopre il piacere di flettersi, anche solo di un soffio.

E Aly, davanti a me, fa esattamente lo stesso.
Non rompe la regola, ma la piega con grazia inconsapevole. Non pretende di avere ragione, ma sa continuare quando qualcosa manca.
E quando sto con lei, non mi viene da spiegare. Non mi viene da correggere. Non mi viene nemmeno da parlare, se non per accompagnare le sue frasi come si accompagna un passo piccolino con uno più lungo. Mi viene, invece, da abbassarmi. Da mettermi alla sua altezza. Da guardare il mondo dal punto esatto in cui lei lo sta ricostruendo.
Penso spesso a quanto poco serva, a volte, la nostra sicurezza adulta. A quante volte crediamo di sapere come si fa, come si dice, come si scrive. E a quanto siano più fertili, più teneri, più vivi i gesti che non cercano di avere ragione.
Come quelli di Alyzsa. Come quelli di certi artisti che si lasciano attraversare senza mai imporsi.
È questo, credo, che mi resti addosso oggi: l’idea che una regola, se usata bene, non è un confine. È un margine.
E che il margine, se lo guardi con abbastanza attenzione, può diventare casa.
Perché mia nipote non insegna nulla, eppure ogni gesto è una lezione. Di fiducia. Di precisione affettiva. Di disobbedienza mite.
E io, che passo la vita a cercare le parole giuste, capisco che le parole più giuste a volte sono quelle che si dicono senza pensarci troppo. O pensando benissimo, ma con il cuore. Come probabile. Come facciamo finta. Come non ha “più senso” quello che mi stai dicendo.
Ci sono momenti in cui tutto si riduce a questo: alla consapevolezza di non dover sempre avere ragione. Di non dover dire l’ultima parola. Di non dover spiegare.
Ci sono momenti in cui l’unica cosa giusta da fare è farsi piccoli, e restare a guardare una bambina che infila una zeta dove andrebbe una esse, e farle spazio.
Tutto lo spazio che serve.
Mi taccio.
Ciao Ciao.