Dove nascono le parole che ci abitano
Un dizionario sul letto e la pazienza di imparare il mondo
Da bambina imparavo le poesie a memoria come se fossero incantesimi. Le ripetevo piano, in silenzio, muovendo appena le labbra, come si fa con le formule magiche, o con le cose troppo grandi per essere dette davvero.
Mi è sempre piaciuto il ritmo prima del significato, il suono che restava in bocca come una biglia liscia, da rigirare con la lingua nei momenti di paura o di attesa.
Le parole mi sono sempre sembrate l’unica cosa davvero mia, l’unica cosa che nessuno mi avrebbe mai portato via: non serviva spiegarle, bastava tenerle anche quando non capivo cosa volessero dire.
Mi rassicurava il fatto che ci fossero.
Come una chiave per un posto che ancora non conoscevo, ma che un giorno, forse, avrei abitato.
A casa dei miei genitori le parole stavano ovunque: nel diario di mia madre, tra i libri impilati sul pavimento, nei quaderni sgualciti, nelle lettere chiuse a metà e dimenticate sul fondo dei cassetti. Le trovavo anche nei margini, scarabocchiate con la stilografica accanto a un titolo, a una data, a un appunto di lavoro.
Ma stavano anche altrove, come in un dizionario Garzanti della lingua italiana, edizione 1982, con la copertina grigia, spessa, graffiata, sempre aperto sul tavolo del salotto o sul letto disfatto, come se fosse un corpo da consultare.
Mio padre parlava in un modo che da bambina mi sembrava astruso, scelto apposta per non farsi capire.
Non spiegava. Non traduceva. Aspettava.
Aspettava che fossi io a cercare, a sfogliare, a leggere ad alta voce la definizione, sillaba per sillaba, mentre lui taceva con una pazienza che allora mi sembrava snervante, quasi crudele. Ma poi, quasi senza accorgermene, quel gesto è diventato abitudine e ho cominciato a cercare da sola, anche quando non me lo chiedeva più. Una parola al giorno. O due. O tre. Una sete sottile, brutale. E così, senza prediche, senza premi, senza applausi, ho imparato che le parole non si spiegano: si cercano. E che spesso non servono nemmeno per dire, ma per capire. Per stare al mondo con un filo di consapevolezza in più.
Mio padre parlava, si, molto poco, ma scriveva con una voce che sembrava venire da un’altra epoca.
Più che leggerli, i suoi versi, li origliavo. Avevano dentro qualcosa che non capivo, ma che mi chiamava. Qualcosa che faceva paura e insieme luce. Volevo essere come lui, o più probabilmente solo come lo immaginavo: un uomo ruvido e sottile, capace di sopravvivere al mondo con le parole giuste, quelle che non si dimenticano, quelle che ti si piantano sotto la pelle e poi restano lì, anche quando tutto il resto se ne va.
Quelle parole che non devono gridare per farsi sentire, che bastano da sole, anche scritte in piccolo, anche lasciate a metà.
Alla fine sono diventata semplicemente io. Non per volontà, ma per attrito. Trascinandomi dietro l’idea della persona che mio padre fosse, senza acchiapparla mai davvero.
Ma inseguendo quell’immagine sfocata, che forse era più mia che sua, sono diventata così: una persona che tiene le parole in bocca troppo a lungo, che parla tanto ma si scopre solo quando tace. Una che scrive per respirare meglio. Una che si aggrappa alla lingua come si fa con i corrimano, quando le scale sono troppo ripide.
Strana, forse. Spigolosa, sicuramente. Con una forma che fa fatica a stare nel mondo. Ma con le parole che mi servono sempre in tasca, anche quando il resto manca.
Anche quando tutto il resto non basta.
Perché se c’è una cosa che ho imparato, è che certe parole, quando arrivano, ti cambiano per sempre. Anche se non sai spiegarle. Anche se non le hai scelte tu. Anche se te le hanno lanciate dietro con noncuranza.
Crescendo ho capito che non sempre salvano. A volte fanno male, a volte arrivano tardi, altre ancora si usano per non dire.
Per allontanare.
Per difendersi.
Ma quelle che contano davvero, quelle che ci legano, che ci espongono, che ci cambiano, vanno scelte con lentezza.
Vanno masticate a lungo. Vanno dette solo quando si è pronti a portarne il peso.
Io ci lavoro, con le parole. Le interrogo, le rincorro, le tradisco, le smonto, le aggiusto, le scrivo e poi le cancello. Le porto in giro come se fossero cose vive. Le cerco anche quando sembrano finite e le curo quando si fanno ferite. Non credo a chi dice che contano solo i fatti, che le parole sono solo lettere scritte sulla sabbia. Esse sono stanze in cui restiamo intrappolati o da cui finalmente usciamo, ma sono quelle che non diciamo, più ancora di quelle che pronunciamo, a fare la differenza.
Quando parlo per davvero, quando dico qualcosa che mi espone, qualcosa che ha a che fare con la carne, con il dolore o con l’intimità, allora lo faccio piano. Tengo ogni sillaba sulla lingua come se potesse esplodere. E le parole che ho imparato a temere di più sono quelle che restano in sospeso, quelle che non arrivano mai al punto. Quelle che amano a metà. Quelle che promettono e poi lasciano.
Meriggiare pallido e assorto
C’è stata una poesia che ho saputo a memoria per anni: Meriggiare pallido e assorto. Non la capivo, ma la tenevo.
Mi sembrava bellissima, e bastava così.
Poi un giorno l’ho sentita sulla pelle. In quel tipo di stanchezza che non passa dormendo. In quella luce verticale che brucia senza scaldare. In quella sospensione che non è quiete, ma inquietudine trattenuta. In quella tensione sottile che ti abita anche quando sembra tutto fermo.
Lì ho capito che certe poesie non si spiegano. Ti aspettano. E quando arrivano, quando affondano nella carne, non puoi più fingere di non aver capito.
E non era l’unica. Ce n’erano altre, scolpite nella memoria con quella precisione che solo l’infanzia conosce. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie, diceva Ungaretti, e io non sapevo davvero cosa volesse dire, ma la frase restava, sospesa, come un piccolo allarme silenzioso. Una precarietà senza nome, ma riconoscibile, come un’eco lontana. Mi bastava ascoltarla per sentirmi in bilico. Sapevo che prima o poi sarebbe accaduto qualcosa. Che la caduta, anche se non la vedevi, era già scritta.
Poi un giorno, tra un film visto di nascosto e una pagina strappata da un libro che non avrei dovuto toccare, ho trovato Milton che ormai mi porto sempre dietro come un compagno fedele.
Did I request thee, Maker, from my clay
To mould me Man, did I solicit thee
From darkness to promote me?
Non capivo tutto, ma bastava la domanda. Era abbastanza quel “Did I request?”, il tono di chi non chiede spiegazioni ma pretende ascolto, il modo in cui la voce si torce per nominare la colpa e restituirla, con la stessa precisione con cui ci è stata data. Non sapevo ancora a chi volessi rivolgerla, ma sapevo che prima o poi sarebbe diventata mia.
Perché è così che funziona, con certe poesie. Non sono mai solo versi: sono spine, sono specchi, sono ferite che non sanguinano subito, ma ti abitano nel silenzio, e solo molto più tardi, quando meno te lo aspetti, diventano veri.
E alla fine sono state loro, le poesie imparate per gioco, a insegnarmi come si sta dentro la vita: a memoria, senza capire tutto, con la bocca chiusa e il petto aperto, con la paura che trema nelle mani e la voce che inciampa ma insiste.
A memoria, sì, come si fanno le cose che contano davvero, quelle che non ti servono ogni giorno ma quando ti servono, ti salvano.
L’inclinazione delle cose sopravvissute
Questa puntata di Note a margine è realizzata con il supporto di Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, in occasione della mostra gratuita “Meriggiare pallido e assorto”, visitabile a Genova fino al 13 luglio 2025.
C’è una fotografia, in mostra a Palazzo Ducale di Genova, che si è incollata alla pelle senza far rumore, come fanno le cose che ti riconoscono prima ancora che tu le guardi davvero. Non era fra le più grandi né fra le più esposte. Ma è lì che torno ogni volta con la memoria, come se dentro quell’immagine ci fosse nascosto qualcosa di mio.
La firma è di Anna Positano, e la composizione è secca, chirurgica, trattenuta: in primo piano la schiena di una donna e dietro, un’agave dalle foglie larghe e fibrose. La stessa pianta che cresceva nel cortile di mia nonna, in un vaso sbrecciato, come residuo di un’infanzia che non ho mai davvero abitato, ma che continua ad affacciarsi nei sogni con ostinazione. Era una pianta che non si lasciava accarezzare, eppure c’era sempre, immobile, a presidiare un angolo della casa come una sentinella vegetale: tagliente, coriacea, capace di sopravvivere alla sabbia e alla dimenticanza.
Sopra quella trama botanica, come un innesto fragile ma tenace, si staglia una porzione di corpo: un fianco nudo segnato da due cicatrici verticali, nette, che non chiedono attenzione ma nemmeno scompaiono.
Non raccontano cosa le abbia prodotte, non gridano dolore, ma restano lì come segni incisi, come fratture rimarginate senza anestesia.
Quel collage resta immobile come certi dolori che non si fanno allegoria, che non servono a nulla e non vogliono più nulla, ma che sono rimasti perché resistere non è sempre una scelta. A volte è solo ciò che resta quando non ci si può permettere di crollare.
E forse è questo che tiene insieme l’intera mostra Meriggiare pallido e assorto: una raccolta di sguardi e di attese, ispirata a una delle più celebri poesie di Montale; poesia iniziatica, spartiacque, porta d’ingresso in quel modo tutto italiano di abitare la fatica, la luce che scava, la sospensione che pesa senza gridare.
Ossi di seppia, pubblicato cent’anni fa, resta non solo una miniera di immagini, ma anche una lente ancora sorprendentemente attuale con cui interrogare il nostro tempo: la stanchezza come condizione esistenziale, la sete come orizzonte, l’asciuttezza come forma di verità.
Montale non ha mai avuto un rapporto estetico con la fotografia: l’ha attraversata da poeta, non da artista visivo. Per lui l’immagine non era mai un fine, ma un mezzo per ricordare, una suggestione, un resto. L’unico gesto fotografico davvero significativo che ci ha lasciato è la sua "autodefinizione con una fotografia" richiestagli per l'Almanacco letterario Bompiani del 1935: una fanciulla di spalle, il volto nascosto, un gatto che si allontana. Come a dire che ogni autoritratto è sempre uno spostamento, un’indiretta, una fuga dalla centralità dell’io.
Ed è proprio questo slittamento che sembra tenere insieme le opere esposte che sono sempre in bilico tra visione e memoria, tra superficie e profondità.
Le immagini di Iole Carollo paiono mappe mentali più che documenti, zone porose dove l’immagine si fa sedimentazione, dove il tempo ha già cominciato a cancellare i bordi ma senza dissolvere la presenza. Le sue fotografie accennano, suggeriscono, tornano come ossessioni, bruciate ai margini, ripetute quasi ossessivamente.
Delfino Sisto Legnani, invece, lavora per sottrazione. Le sue inquadrature sono pause, sono soglie. Non cercano l’effetto, non pretendono di spiegare. Sembrano silenzi tradotti in luce. Ti costringono a restare, a non girarti dall’altra parte. Non ti tengono per mano, ma ti lasciano lì, con le tue domande. E se hai il coraggio di restare, qualcosa accade.
Così come accade con certe poesie imparate da bambini, che non si capiscono fino in fondo ma si tengono in bocca come si tiene un amuleto, come si tiene la chiave di una casa che ancora non esiste ma che un giorno, forse, sapremo riconoscere.
Info mostra Meriggiare pallido e assorto
📌 Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura
💰 Ingresso libero
📆 Fino al 13 luglio
⏰ Aperta dal martedì alla domenica ore 11 – 19, lunedì chiusa
A cura di Ilaria Bonacossa e Paolo Verri con Michela Murialdo.
Una co-produzione a cura di Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Palazzo Ducale di Genova ed Electa.
Realizzata grazie al contributo concesso mediante l’Avviso pubblico Strategia Fotografia promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.
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