Provengo da una famiglia quasi interamente sarda, e basterebbe questo per dire moltissimo, se non tutto, ma non come si intendono certe frasi quando diventano etichette, quanto piuttosto come si riconosce una geografia che si scrive nel corpo prima che nella biografia, un modo di stare al mondo che non ha bisogno di essere affermato perché esiste già, visibile nei gesti, nella postura.
Le donne della mia vita non sono mai state figure addomesticate o simboliche, non si sono mai chiuse nei ruoli, né si sono lasciate ridurre a funzioni; erano presenze intere, politiche nel senso più pieno, capaci di abitare ogni spazio senza chiederne la legittimità, attente e operative, solide e contraddittorie, dotate di una forza che non ha bisogno di alzare la voce perché sta già dentro ogni frase non pronunciata. Le ho viste sfilettare il tempo con la punta delle dita, ripassare le stesse cuciture cento volte, non per decorazione o per abitudine, ma per disciplina e rigore, come se la pazienza fosse un’ossatura e non un adorno. Le ho viste cucinare senza ricette, ma non perché non le conoscessero, bensì perché il gesto era già interno, misurato nel corpo e non nel testo. Regolavano il fuoco con il dorso della mano, contavano il sale a occhio, mescolavano le cose con un ordine che non era scritto ma necessario. Del dolore parlavano soltanto quando non c’era più altra scelta, e solo se chi le ascoltava aveva già dimostrato di saper portare almeno una parte del peso.
Mio padre era l’unico elemento esterno a quella geometria familiare perfettamente matriarcale. Mezzo americano e mezzo toscano, portava addosso una tenerezza disallineata, una gentilezza che lo metteva leggermente fuori fuoco rispetto alla tessitura compatta delle donne che lo avevano accolto. Non somigliava a loro, e non fingeva di farlo.
Stava accanto. Con rispetto. Con quella discrezione precisa di chi sa che esistono leggi che non si possono imparare, ma solo osservare. Dicevano tutte che suonasse la chitarra per mia madre, che le cantasse De André senza mai farne una scena, senza pretendere nulla. Una chitarra tra le mani, una stanza tranquilla, lei che ride o balla poco distante, una sera che si allunga oltre la necessità. Non ho mai visto questa scena, ma so che è successa. E tanto basta.
Mia madre, invece, ballava. Sempre. Ballava in cucina, con la radio accesa, mentre tagliava le zucchine o lasciava evaporare il brodo. Ballava in salotto, a piedi nudi, anche senza musica. Ballava per strada, se la musica usciva da un portone o da una macchina, senza esitazioni. Non era una forma di spettacolo, né un bisogno di leggerezza. Era il suo modo di abitare il corpo. Di non lasciarlo ai margini. Di tenerlo vivo.
Le sue gonne giravano come cerchi d’aria intorno alle gambe, e lei rideva mentre si muoveva, come se ci fosse qualcosa che si scioglieva dentro ogni volta, qualcosa che non chiedeva spiegazioni.
E in quella casa, o meglio in quella stagione che tornava ogni anno identica eppure diversa, c’era un giradischi. Un oggetto umile, appoggiato su un mobile basso, acceso spesso nei pomeriggi in cui la luce restava ferma e nessuno aveva più voglia di parlare. De André girava lento, con la sua voce ruvida, che non chiedeva attenzione, ma si imponeva comunque, entrando nelle stanze come un odore persistente, come un pensiero lasciato a metà, come qualcosa che stava già dentro. Non cantava per consolare e non raccontava per farsi capire. Diceva le cose come stavano. E le lasciava lì.
Io e mio fratello siamo cresciuti lontano. La Sardegna la abitavamo tre mesi l’anno. Il resto del tempo era altro. Altri gesti, altre parole, altri modi di organizzare il mondo. Ma in quei tre mesi si condensava una versione di noi che non avevamo scelto, ma che ci teneva comunque. Era un tempo diverso, un paesaggio che sapeva essere ostile ma non rifiutante, un’appartenenza parziale che però non poteva essere ignorata. Sapevamo di non essere del tutto dentro, ma sapevamo anche di non essere mai davvero fuori.
La prima volta che ho ascoltato Hotel Supramonte ero lì, in Sardegna. La casa era piena, le finestre aperte, le voci basse. La puntina del giradischi aveva appena iniziato a grattare quel suo suono sottile, e poi, senza alcun preavviso, la voce di De André era arrivata, secca e presente, senza sbavature, senza intonazione inutile. E io, che fino a quel momento conoscevo solo qualche frase, qualche ritornello sentito di sfuggita, ho sentito che qualcosa si muoveva. Non un’emozione, non un’identificazione, ma una prossimità improvvisa. Una lingua che sembrava conoscere la mia, anche senza averla mai incontrata.
“Ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano
Cosa importa se sono caduto, se sono lontano”
Non ho mai dimenticato quella frase. L’ho portata con me, negli anni, senza farne un motto, senza inciderla da nessuna parte. Solo tenendola dentro, come si tiene un gesto che ci è stato rivolto una volta sola, ma che ci ha cambiato la postura. Lì, credo, è nato il mio amore per De André. Non da un’ammirazione intellettuale, non da un esercizio critico, ma da un riconoscimento. Una forma di fedeltà spontanea. Di quelle che non si scelgono, ma che semplicemente accadono.
E da allora, ogni volta che sento quella voce, ogni volta che Hotel Supramonte torna, anche per caso, anche in una stanza diversa, sento che quella soglia non si è mai chiusa davvero. So che quella stanza esiste. So come ci si respira dentro. So che cosa significa restare anche quando non si ha più nulla da offrire. So che cosa vuol dire non poter scegliere di andarsene, avere paura e comunque essere forti per qualcuno.
Come se quel gesto (tendere la mano, anche quando è inutile) fosse tutto ciò che abbiamo.
Il Supramonte, l’Agnata e la lezione del silenzio
Quando Fabrizio De André arriva per la prima volta in Sardegna, alla fine degli anni Sessanta, non cerca una meta esotica né una pausa di lusso. Cerca un luogo dove il tempo abbia un altro passo, dove il paesaggio non sia addomesticato, dove la voce si possa abbassare perché tutto il resto è già abbastanza denso. È un’isola che non seduce con facilità, la Sardegna. Devi sceglierla con pazienza. E lui la sceglie, anno dopo anno, fino a fermarsi nel 1975 con Dori Ghezzi in un vecchio stazzo gallurese immerso tra le colline di Tempio Pausania: un casolare senza porte né finestre, che chiameranno L’Agnata. Lì non ci sono ancora comodità quell’anno, ma c’è una bellezza essenziale, spoglia, fatta di legna da tagliare, animali da accudire, orti da curare, cene mangiate all’aperto e notti piene di stelle. È un ritorno alla terra che ha il sapore di un esperimento radicale. Vivere, semplicemente. E restare.
Ma il 27 agosto 1979, quell’equilibrio si spezza. Una banda armata fa irruzione a L’Agnata e rapisce entrambi. Si tratta dell’Anonima sequestri, una rete criminale diffusa in alcune zone dell’entroterra sardo, che tra gli anni Settanta e Ottanta compie decine di sequestri di persona a scopo di estorsione. Non è un’organizzazione strutturata come la mafia o la ‘ndrangheta, ma una costellazione fluida di gruppi familiari e pastori armati, spesso spalleggiati da reti silenziose di complicità locali. I sequestri si svolgono in luoghi impervi, isolati, difficili da raggiungere: macchia fitta, tenda, fango, mesi di silenzio e paura. De André e Ghezzi resteranno prigionieri per quattro mesi nei boschi del monte Lerno. Non nel Supramonte, tecnicamente. Ma sarà quel nome evocativo, ruvido e granitico a restare inciso nella memoria collettiva.
Quando tornano a casa, lo fanno senza rancore. Nelle interviste successive, De André parlerà dei suoi carcerieri con una lucidità che sorprende. Racconterà il rispetto umano nato nel tempo, la povertà che genera le ingiustizie, la responsabilità sociale che le precede. Non sarà mai un testimone urlante. E non scriverà una canzone di denuncia. Scriverà Hotel Supramonte.
Il brano esce nel 1981, all’interno dell’album “L’Indiano”. La canzone nasce da una melodia iniziale di Massimo Bubola, intitolata Hotel Miralago, ma De André la rielabora, la riduce, la porta in una zona più scarna. La intitola Hotel Supramonte, fondendo due immagini apparentemente inconciliabili: un “hotel”, cioè un luogo di passaggio, di comfort, quasi di vacanza, e il Supramonte, altopiano calcareo della Barbagia, inospitale, selvatico, resistente. Il titolo stesso è un ossimoro. E funziona proprio perché non spiega: allude. Evoca. Tiene insieme l’assurdo e il reale.
Hotel Supramonte è una canzone che non racconta il sequestro. Lo contiene. Non lo descrive: lo trasforma in uno spazio emotivo, una stanza chiusa, dove si dorme vestiti e si trattiene il fiato. Le immagini sono minime, precise, mai liriche. Una donna in fiamme. Una lettera vera di notte, falsa di giorno. Una frase che vale più di qualunque ricostruzione giornalistica: “Ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano
Cosa importa se sono caduto, se sono lontano”. È tutto lì. In quel gesto. In quell’offerta disarmata. Non un grido, non una richiesta di perdono o giustizia. Solo una presenza che decide di restare, anche quando non c’è più nulla da fare.
La Sardegna, in questo brano, non è semplice sfondo. È parte della lingua della canzone, ne incarna la durezza e il silenzio, la bellezza che non si concede facilmente, la resistenza profonda dei luoghi e delle persone. Non è idealizzata né accusata. È amata con il realismo di chi ha scelto di starci dentro. Anche dopo.
Hotel Supramonte è la prova più alta di come si possa scrivere una canzone d’amore senza usare la parola amore. È la dichiarazione più sobria e radicale che si possa fare: restare quando si avrebbe ogni motivo per andarsene. E forse, proprio per questo, è una delle più grandi canzoni italiane mai scritte. Perché ci dice, senza retorica, cosa vuol dire abitare il dolore senza farsene divorare. E trasformarlo, piano, in una promessa.
Una mano tesa nel buio
Forse è questo che ho imparato davvero, ascoltando Hotel Supramonte negli anni in cui l’amore ha iniziato a chiedermi qualcosa in più del desiderio. Che non sempre si può salvare. Non sempre si sa cosa dire, né come farlo. A volte non si ha nulla da offrire se non una mano tesa, da tenere stretta nel buio, quando la paura alza la voce e le parole fanno male o non bastano. L’amore, quello vero, non è fatto di soluzioni. È fatto di presenza. Di voci che si abbassano quando serve. Di risate che si stringono attorno al dolore, senza cercare di coprirlo.
L’amore per me, negli anni, ha preso forme che non mi aspettavo. Non sempre è stato romantico. Spesso è stato concreto come mio fratello che si accorge dal tono della voce se qualcosa non va. Le amiche che sanno dire poco ma restano accanto, che portano da bere, fanno una battuta, ti coprono le spalle senza farti domande. I messaggi brevi, le risate storte, la presenza dei giorni normali. Tutto quello che non sembra abbastanza, e invece salva.
Ma forse l’ho capito davvero solo ora, che anche a me capita di restare. Di esserci. Di tendere una mano quando non so nemmeno come tenermi in piedi. Di imparare il gesto, anche senza parole. Di non andarmene, anche quando la paura occupa tutto lo spazio. Anche quando non so che dire. Anche quando non so se serve.
E allora sì, forse l’amore è questo. Non l’eroismo. Non la vittoria. Non la cura che risolve. Ma il restare. Il restare insieme. Anche quando fa male. Anche quando il peggio sembra passato ma non lo è. Anche quando nessuno ci insegna come si fa.
Bonus: per chi passa da lì
Se un giorno vi dovesse capitare di attraversare la Gallura con passo lento e cuore aperto, c’è un posto che non dovete saltare. Si chiama L’Agnata, ed è ancora lì, nascosta tra le curve silenziose vicino a Tempio Pausania. Una casa che fu senza porte né finestre, scelta come rifugio da chi voleva abitare la terra e non soltanto guardarla. Oggi è un albergo immerso nel verde, ma qualcosa è rimasto intatto: l’aria che odora di legna e lentischio, il silenzio che sembra pensato, la bellezza che non cerca di piacere a tutti.
A circa tre ore da Tempio, tra le colline, si alza da secoli la Basilica di Saccargia, tutta righe bianche e nere, pietra e cielo. È una chiesa romanica in mezzo al nulla, con un’eco che sembra trattenere tutto il non detto.
Se avete voglia di camminare, arrivate fino a Ulassai, il paese di Maria Lai, dove le opere non stanno nei musei ma sulle case, nei fili tesi tra le facciate, nei muri che raccontano le storie di chi è rimasto. È un posto che parla di arte, di cuciture, di mani che fanno e disfano. E poco lontano c’è Orgosolo, che un tempo era conosciuto per ben altro, e oggi è una galleria a cielo aperto. I suoi murales non sono decorazione: sono memoria, rabbia, politica, poesia. Una forma di resistenza.
E se mentre siete lì vi viene voglia di ascoltare De André, fatelo. Ma non in cuffia. Aprite il finestrino, lasciate entrare il maestrale e fate girare Hotel Supramonte. Vedrete che la strada si stringe un po, il tempo si dilata, e forse, anche solo per un istante, sentirete cosa vuol dire restare qui.
Dei posti da vedere in Sardegna ho scritto qui su Finestre sull’arte
Il mio ultimo articolo, invece, parla di un bel viaggio a Nantes. Lo racconto qui
Grazie per aver letto fin qui
Mi taccio
Ciao Ciao