Famiglia: Complesso delle persone che si riconoscono discendenti da un antenato comune: un’antica, un’illustre f.; essere di f. nobile, patrizia; essere di buona f., di elevata condizione sociale.
Così scrive la Treccani, ed è una definizione che non sbaglia, ma non basta. Non contempla tutto ciò che nasce fuori da quella linea, non racconta le forme dell’amore che non passa per i legami di sangue, non considera il peso (e la grazia) di chi sceglie di esserci senza averlo mai dovuto fare.
Ci sono esistenze in cui la famiglia si eredita, e si somma alla fortuna di essere amati. E poi ce ne sono altre in cui l’amore, per manifestarsi, ha dovuto trovare una strada alternativa, paziente, concreta, non per questo più debole, ma forse proprio per questo più solida, più difficile da spezzare, più resistente.
Ho imparato presto che l’appartenenza, quella vera, si costruisce, non si eredita. E quando la si costruisce, s’impara che nessuna definizione la conterrà mai.
A volte si eredita tutto: mobili, quadri, stoviglie, pezzi di storia che dovrebbero significare qualcosa. Ma l’appartenenza vera non si gioca nella conservazione degli oggetti, quanto nel modo in cui si trattano le persone. Si può custodire una cristalliera per decenni e non aver mai saputo custodire un abbraccio. Si può ricordare ogni anniversario e non essersi accorti mai di una voce che tremava. In tutto questo rumore c’è chi ti rimprovera per aver lasciato andare qualcosa “di famiglia” come se fosse un atto di disonore, come se ciò che conta davvero fosse il gesto simbolico di tenere, trattenere, preservare. Ma nessuno si chiede quanto pesa, e per chi. Nessuno si ferma a domandare se quell’eredità, invece che tramandata, non andasse finalmente lasciata andare.
La famiglia sono le persone che ti tengono anche quando tutti pensano che tu sia già salda al suolo, ma qualcuno ti guarda e chiede con una voce ferma, pulita, affettuosa fino a farti tremare le ossa: “Come stai davvero?”, senza dover specificare che quella domanda valga più di mille attenzioni tardive. Famiglia è Aurora, che lo chiede così, senza retorica, senza insistenza, ma nel momento esatto in cui il cuore si sposta un millimetro. Famiglia è Simone, che prende l’auto a fare l’impianto elettrico non perché è suo dovere, non perché ha tempo, non perché gliel’hai chiesto, ma perché ci vuole bene. E lo fa come si fa quando si tiene a qualcuno senza bisogno di dimostrarlo. Famiglia è Marta, che ogni giorno scrive, anche quando non c’è molto da dire, anche quando tutto sembra andare bene, anche quando il silenzio sarebbe più semplice e lo fa perché esserci è una forma di fiducia quotidiana, non un gesto straordinario. Famiglia sono Ila e Pitt, che partono da Zurigo per venire quando qualcuno sta male, senza bisogno di spiegare, senza voler essere ringraziati, senza attendere gratitudine. Famiglia è chi c’è prima di chiedere, chi arriva anche quando non hai trovato le parole, chi si siede accanto a te anche se non hai spiegato nulla, anche se non hai pianto, anche se continui a far finta che vada tutto bene.
E poi c’è lei, la signora Maria, che al mercato pensa a te, che la domenica cucina come se quel posto a tavola fosse tuo da sempre, che non ti ha mai chiesto di raccontarle nulla, ma ti tiene accanto con una gentilezza che non cerca né meriti né sangue, solo una presenza silenziosa, costante, assoluta. Una dichiarazione che non ha bisogno di parole.
Questa è la famiglia che conta. Quella che si costruisce senza che nessuno se ne accorga. Quella che non pretende riconoscenza, ma la riceve comunque. Quella che non pesa, perché ognuno sa esattamente quanto può portare e quanto è giusto chiedere. Quella che non ha bisogno di essere celebrata, ma sa restare anche quando tutto il resto si sgretola. È una forma d’amore che non chiede di essere nominata, perché si riconosce da sola. È uno spazio che si apre senza dichiarazioni solenni, senza bisogno di giustificarsi, senza dover spiegare da quanto tempo ci si conosce.
È cura che non si misura in prestazioni, ma in attenzione. È disponibilità che non nasce da un voto di riconoscenza, ma da qualcosa di molto più fragile e più potente: sapere che, se la posizione fosse invertita, si farebbe lo stesso. Senza sforzo. Senza bisogno di parole. Solo perché quell’amore lì va protetto. Va onorato. Va tenuto.
E se un giorno qualcuno mi chiedesse cosa significa davvero essere famiglia, la risposta sarebbe tutta qui: nella capacità di esserci senza condizioni, nella pazienza di chi resta, nella delicatezza di chi non chiede nulla ma tiene tutto.
E in chi, pur non avendo alcun dovere, ha fatto spazio.
E continua a farlo.
Come se fosse l’unica cosa che conti.
L’arte relazionale come costruzione affettiva volontaria
Se c’è un’artista capace di raccontare cosa significhi costruire legami fuori dalle strutture ereditate, cucire relazioni con gesti che non passano per i vincoli del sangue ma per quelli, più tenaci, dell’attenzione e della fiducia, questa è Maria Lai.
Nata a Ulassai, un piccolo paese incastonato tra le montagne dell’Ogliastra, Maria Lai non ha fatto della Sardegna una cartolina da esportare, ma un laboratorio di miti, di mani, di presenze. Per lei l’arte non è mai stata un monumento, ma un gesto. Non è mai stata proprietà, ma passaggio. Non è mai stata decorazione, ma bisogno. È questo che la avvicina al senso più profondo della parola “famiglia” quando la si libera da ogni obbligo di discendenza e la si riconduce, con pazienza, al suo significato possibile: prendersi cura, stare, creare dove tutto spinge verso la separazione.
Nel 1981 realizza Legarsi alla montagna, un’opera che non era stata fatta per essere guardata, ma attraversata. Prende 27 chilometri di nastro celeste e lo fa passare attorno alle case del paese, unendo balconi, finestre, pietre, mani. Ogni famiglia deve legarsi alla casa del vicino.
Non si sceglie chi. Non si sceglie come.
Ci si fida.
Si crea un disegno collettivo che nessuno vede interamente, ma che tutti costruiscono.
Ecco, in questo c’è l’idea più radicale di comunità: non essere d’accordo su tutto, ma accettare di rimanere uniti. Di avere cura anche quando non si comprende. Di annodare un filo, anche quando non si capisce bene dove porterà. Ma non tutti quei fili reggono. Alcuni si spezzano, si allentano, si lasciano andare. Alcuni non si formano mai. E proprio in quell’interruzione, in quella distanza non colmata, non c’è un fallimento: c’è la verità. Che legarsi non è obbligatorio. Che l’amore, come l’arte, non si impone. Che la scelta di tenere un legame è tanto preziosa quanto fragile. Legarsi alla montagna, che allora fu guardata con diffidenza e oggi è citata nei manuali, non parla solo di arte pubblica, ma parla del modo in cui le relazioni si costruiscono, e a volte si disgregano. Dei fili che reggono anche quando si assottigliano. Dei legami che valgono non perché dettati da una convenzione, ma perché qualcuno ha deciso, ogni giorno, di tenerli. E, quando serve, anche di lasciarli andare.
Lai lavora con libri cuciti, pagine che non si possono leggere ma solo toccare, con stoffe e sassi, con alfabeti misteriosi. Niente è chiaro, niente è definitivo. Ma tutto è vero. Il sapere, per lei, non si tramanda in verticale, con l’autorità di chi sa, ma in orizzontale, con la disponibilità di chi condivide. Le sue opere sono offerte, sono dialoghi muti, oggetti da maneggiare con lentezza.
Anche l’arte, come la famiglia, può essere costruita nel tempo da chi sceglie di esserci. E ancora l’arte, come la famiglia, può fare male se imposta, se ingabbiata, se ridotta a genealogia o appartenenza. Maria Lai questo lo ha compreso fino in fondo poichè ha scelto un’arte che non esclude, che non divide, che non s’impone per linea ereditaria. Un’arte che si fa con gli altri. Che non ha padri. Che non ha proprietà. Solo incontri. E amore.
Nel suo lavoro non c’è mai il bisogno di lasciare un’impronta. Solo quello di lasciare qualcosa da toccare. E questa, forse, è la forma più alta di famiglia: quella che non chiede somiglianza, ma contatto. Quella che non si eredita, ma si costruisce. Quella che non ha bisogno di essere riconosciuta, perché è già lì. Presente. Intorno. Legata.
Mi taccio
Ciao ciao