Ciò che resta quando tutto crolla
Storie d’arte, resistenza culturale e identità cancellate in Myanmar
Avevo preparato un’altra newsletter per iniziare questo nuovo capitolo. Era già lì, pronta, ma poi c'è stato il terremoto in Myanmar e ho sentito che non aveva più senso, che quella mail poteva aspettare e ho deciso di riscrivere tutto.
Note a margine non è e non sarà una newsletter di cronaca, ma nemmeno uno spazio fuori dal mondo. E quando una storia diventa crepa, quando qualcosa si spezza, diventa necessario fermarsi, guardare bene e provare a capire. E a volte basta poco, pochissimo, per avvicinarsi a certe storie.
Del Myanmar non sappiamo molto: per scelta, per distrazione, perché è una storia difficile, lontana, scomoda. Eppure, chi ha provato a raccontarlo ha trovato ricami cuciti a mano, pigmenti ricavati dalla corteccia, artisti che hanno dipinto in cella con pezzi di plastica. È una cultura fatta di silenzi pesanti, di gesti tramandati con pudore, di una grazia che non ha bisogno di mostrarsi.
Oggi provo a raccontare questo: non ciò che è crollato, ma ciò che resta. Le mani che tengono insieme le cose con un filo quando tutto intorno si strappa e perché alla fine, come affermava Tiziano Terzani “la storia esiste solo se qualcuno la racconta”.
Iniziamo.
🇲🇲 Thanakha: l’identità sulla pelle
C'è un gesto, in Myanmar, che si ripete ogni giorno da più di mille anni. Si prende un pezzo di corteccia, lo si strofina su una pietra bagnata e si ottiene una pasta chiara, che viene poi stesa sul viso: sulle guance, sulla fronte, talvolta lungo il naso. Si chiama thanakha (သနပ်ခါး). Ed è molto più di un cosmetico. È medicina, rito, identità. Un modo per dire: "io appartengo a questo luogo".
Il thanakha nasce dalla polvere di alberi che crescono nelle zone centrali del paese. La sua preparazione è lenta, antica, tramandata da madre in figlia, da nonna a nipote. Non c'è manuale, non c'è tecnica scritta. Solo il corpo che ricorda, la mano che ripete. E in quella ripetizione, in quella forma povera ma ostinata, si riconosce un intero modo di abitare il mondo.
Nel 2020, il Myanmar ha candidato ufficialmente il thanakha a Patrimonio Immateriale dell'UNESCO. Non per conservarlo sotto vetro, ma per dire che anche le cose leggere, anche i gesti silenziosi, sono memoria.
Htein Lin: dipingere per sopravvivere
Nel 1998, Htein Lin viene arrestato per le sue attività politiche contro il regime. Ha trentadue anni e un passato da attore, pittore, performer. In carcere non ha diritto a carta, colori o pennelli. Gli portano via tutto, tranne le idee.
"Non avevo tele, né pennelli, né colori. Ma dovevo fare arte. Ho stretto amicizia con le guardie carcerarie per far entrare di nascosto i colori, rovistando tra i materiali ovunque potessi", ha dichiarato in un'intervista rilasciata a The Guardian.
Durante quegli anni ha realizzato centinaia di opere, nascondendole, a volte affidandole ai secondini, cercando in ogni modo di proteggere ciò che creava. In carcere, racconta, i detenuti comunicavano cantando o declamando poesie attraverso le sbarre nei momenti di silenzio concessi vicino al cancello di ferro.
L’arte non era un passatempo: era una forma di resistenza quotidiana, una testimonianza diretta della prigionia e della repressione.
Nel 2024, l’Ikon Gallery di Birmingham ha ospitato una grande retrospettiva sul suo lavoro, intitolata 000235. Un numero, questo, che non è un titolo qualunque, ma quello che la Croce Rossa Internazionale gli assegnò durante la detenzione. Non un nome, ma un codice, il segno burocratico e impersonale della sua esistenza sotto il regime. E quella cifra, trasformata in opera, diventa oggi memoria visiva e civile.
Tra le opere esposte c’erano Sitting at Iron Gate, che restituisce con forme concentriche e corpi incastrati la claustrofobia del carcere, e Biology of Art, una visione anatomica costruita con materiali di fortuna. In mostra anche i calchi in gesso delle mani di oltre 500 ex prigionieri politici, realizzati uno a uno, mentre raccontavano cosa avevano passato.
Oggi Htein Lin vive di nuovo in Myanmar, nella regione di Shan. Dipinge ancora, espone, partecipa a progetti collettivi, ma il cuore della sua opera è rimasto lì, tra le mura umide della prigione, dove ogni pennellata era un modo per restare vivo.
puoi vedere la mostra qui
🇲🇲Kalaga: cucire il mito a mano
I kalaga sono arazzi birmani, ma chiamarli così è riduttivo. Non sono semplici oggetti decorativi: sono palcoscenici, mappe, archivi visivi. Ogni kalaga racconta una storia (spesso tratta dalle Jataka, le vite precedenti del Buddha) attraverso fili, stoffe, perline, specchietti e fili d’oro.
Ci vogliono settimane, a volte mesi, per completarne uno. Ogni dettaglio è cucito a mano, ogni animale, divinità o gesto è composto da strati di tessuto sovrapposti, applicati su un fondo scuro. I kalaga non si leggono: si osservano, si attraversano con lo sguardo.
Un tempo venivano usati nelle cerimonie religiose, o regalati ai matrimoni. Oggi ne restano pochi. Alcuni sono conservati nei musei, altri vengono venduti ai turisti in versioni ridotte, semplificate, private del loro significato. Ma quelli autentici, quelli ricamati nei monasteri, nelle case, negli spazi comunitari, sono ancora lì. Resistono al tempo, ai regimi.
🇲🇲 Chuu Wai Nyein: l’arte come attivismo
Nel 2021, dopo il colpo di stato militare, migliaia di persone in Myanmar sono scese in piazza. Alcuni hanno gridato. Altri hanno disegnato.
Tra loro c’era Chuu Wai Nyein, artista nata nel 1992, già nota per le sue opere che univano pittura e attivismo femminista. Da tempo affrontava, con il suo lavoro, il tema delle molestie sessuali e del ruolo delle donne nella società birmana. Ma dopo il golpe, la sua voce si è fatta collettiva. Ha lanciato un’iniziativa semplice e potente: “Write for Right”. Invitava le persone a scrivere lettere, disegni o messaggi per esprimere dissenso. Una forma di protesta che non passava dalle armi, ma dalla carta.
Quel gesto le è costato l’esilio. Oggi vive in Francia. Continua a creare, ma non può tornare. Il suo paese è diventato pericoloso per chi usa l’arte come forma di opposizione. Eppure Chuu Wai Nyein insiste. Dipinge corpi femminili stilizzati, ma mai passivi. Colora, ma senza addolcire. I suoi quadri sembrano leggeri, ma sono pieni di tensione.
🇲🇲Censura: l'arte come libertà nascosta
Un quadro nascosto dietro un armadio, una tela arrotolata sotto un pavimento, parole scritte di notte e cancellate all’alba. Così sopravvive l’arte sotto una dittatura.
In Myanmar, la censura non è solo un capitolo del passato: dopo il colpo di stato del 2021, la giunta militare ha sciolto partiti politici, incarcerato membri dell’opposizione (alcuni dei quali morti in detenzione) e ha reso impossibile qualsiasi forma di dissenso pubblico. In questo contesto, anche l’arte è diventata un bersaglio.
Nel 2023 è nato a Mae Sot, in Thailandia, l’Artists' Shelter: un rifugio per chi ha dovuto lasciare il paese, ma continua a creare. L’arte, lì, è un gesto di sopravvivenza.
Parlare oggi di queste voci, di queste mani, di queste immagini, significa tenere aperto uno spazio di libertà e ricordare che ciò che chiamiamo cultura, a volte, nasce proprio dove tutto cerca di cancellarla.
Quando tutto crolla, quando i rumori cessano e rimangono solo macerie, ciò che resta sono queste storie. Sono i gesti quotidiani, le mani che continuano a cucire, a dipingere, a resistere e sono le voci che sussurrano con forza sottile, ma ostinata che ricordare è già un atto rivoluzionario.
Cosa possiamo fare da qui
Per approfondire quanto accaduto in Myanmar e seguire aggiornamenti affidabili, consiglio di leggere il reportage pubblicato da Il Post a cura della redazione esteri (https://www.ilpost.it)
Per chi vuole offrire un supporto concreto, l’organizzazione umanitaria CESVI è presente sul territorio e sta lavorando in condizioni difficilissime per portare aiuto. Tutte le informazioni per donare sono disponibili qui.
Non possiamo essere ovunque, ma possiamo scegliere di restare dove serve. Anche solo leggendo con attenzione.
Per approfondire
☕️ “Myanmar” o “Birmania”? - un bell’articolo su il Post
☕️ "Burma Chronicles" di Guy Delisle — una graphic novel ironica e lucidissima sul Myanmar vissuto dall'interno
☕️"Un indovino mi disse" di Tiziano Terzani — un diario di viaggio in cui lo sguardo politico e quello umano si fondono con naturalezza. Il suo è un modo diverso di attraversare i paesi, di ascoltarli e raccontarli, senza mai avere fretta.
La tua amichevole divulgatrice di quartiere
F.
❤️❤️❤️
💖