Avrò tutto il resto
Un amore mai iniziato, un ossario, e quella volta in cui ho capito cosa vuol dire "esserci".
Sono andata a Tulln con quella precisione nervosa che mi afferra solo quando non so perché io stia partendo, ma so con esattezza di dovermi incamminare verso qualcosa.
Sono salita sul treno senza fare colazione, con una bottiglia d’acqua che non berrò e un museo da visitare che non mi serve davvero, ma che oggi rappresenta l’unica destinazione accettabile.
Un luogo abbastanza vicino da non richiedere giustificazioni, abbastanza lontano da poterci infilare una fuga dentro.
Mi siedo. Sistemo la borsa accanto a me, con quel gesto ripetuto che serve più a proteggere un confine che un oggetto, e apro il telefono senza aspettarmi nulla. Nessuna rivelazione, nessuna scossa, nemmeno compagnia.
Ed è lì, in mezzo a notifiche irrilevanti, che compare un messaggio. Una frase asciutta, sbilenca, piena.
Non so se avrò sempre i carciofi, ma avrò tutto il resto.
Lì per lì mi è venuto da ridere, perché i carciofi sono diventati una specie di codice tra noi: una misura concreta e assurda dell’impossibilità di essere sempre pronti, sempre all’altezza, sempre forniti del necessario. Era partito tutto da Maria, una signora del palazzo, che un giorno si presentò alla mia porta con tre carciofi freschi, già cotti, chiusi in un portapranzo di plastica con il coperchio azzurro. "Lavori troppo, non ti vedo mai mangiare, e non credo che una come te vada al mercato" aveva detto, poggiandoli sul tavolo con quel gesto pratico e definitivo che solo certe mani possono avere, abituate a fare senza chiedere.
Da allora, ogni volta che parliamo di mancanza, di disponibilità parziali ma vere, di gesti minimi e necessari, finiamo lì: ai carciofi della signora Maria. E quella frase, scritta senza annunci, è stata il modo più sbilenco e perfetto per dire “non avrò tutto, ma tutto quello che ho, se ti serve, sarà tuo.”
Ho riletto quelle parole due, tre volte, senza sapere se cercassi di afferrarle meglio o solo di ritardare il momento in cui avrebbero cominciato a toccarmi davvero. E mi sono resa conto, con quella lucidità che arriva solo quando sei lontana abbastanza da te stessa, che forse è proprio questo il punto.
Che non serve qualcuno che sappia fare tutto, che dica le parole giuste, che arrivi quando crolli o nel famoso momento perfetto.
Serve qualcuno che, pur non sapendo, pur sbagliando, pur tremando, scelga comunque di esserci.
Non per salvarti. Ma per non lasciarti cadere da sola. Anche se non sa come si fa.
È così, con quella flebile certezza, che sono arrivata nella città natale di Egon Schiele.
Architettura della fine
Il sentiero dedicato a Schiele, a Tulln, è ordinato e pensato per chi cerca tracce visibili. C’è la casa natale, il museo, la mappa.
Ma è camminando fuori da quella narrazione lineare, tra le vie troppo pulite per trattenere il dolore, che si arriva a un luogo che non sembra fatto per essere visitato. Si tratta dell’ossario romanico, costruito nel XIII secolo per volere dell’ultimo duca di Babenberg, con la sua torre a due piani, il tetto piramidale, la pianta a undici lati.
All’esterno geometrico, all’interno circolare. Come se la morte, qui, avesse bisogno di girare in tondo per trovare una via d’uscita.
Salgo. Al piano superiore c’è la cappella. Affreschi lievemente scoloriti mostrano il Giudizio Universale, l’adorazione di Cristo e le vergini che scivolano all’Inferno, trascinate da figure che sembrano uscite da un sogno febbrile.
Ma anche draghi, demoni, mostri dai denti lunghissimi.
È tutto lì, in una luce lattiginosa che taglia le immagini come fossero superfici molli.
Un mondo inquieto. Un’iconografia che non promette salvezza, ma racconta semplicemente l’ineluttabile.
Scendo. Nel seminterrato la temperatura cala. L’aria è spessa, ma l’odore non è quello della morte. È quello della pietra che l’ha assorbita.
Qui, fino alla fine del Settecento, venivano portate le ossa riesumate dal vecchio cimitero che circondava la chiesa. Quando non c’era più spazio per seppellire, si liberava terra. Si spostavano i resti, s’impilavano, si ordinavano.
La morte, in questo luogo, non è rappresentazione. È gestione della fine, è architettura della sopravvivenza.
Le pareti custodiscono una memoria fatta di corpi non riconosciuti, raccolti in modo pratico e senza gerarchie. Un sistema di contenimento più che un gesto rituale. Una struttura per arginare il lutto, prima ancora che un luogo sacro.
È in questo tipo di silenzio che cresce Egon Schiele.
Non nella finzione teatrale della tragedia, ma nella prossimità concreta della perdita.
La sorella Elvira muore di encefalite quando lui è ancora bambino e poi tocca al padre, consumato dalla sifilide. L’infezione avanza fino a compromettere tutto: la memoria, la lucidità, la dignità.
Egon assiste. Non come un testimone distante, ma come un figlio che non riesce a sottrarsi.
Solo alcuni anni dopo quei frammenti iniziano a trasformarsi in immagini. Come necessità fisica, come conseguenza naturale di uno sguardo cresciuto troppo vicino alla fine.
La morte attraversa i suoi lavori senza chiedere permesso. Prende corpo in rami piegati, in fiori sull’orlo del collasso, in anatomie disarticolate che smettono di reggersi da sole.
I suoi girasoli sbocciati a metà, già stanchi, raccontano la vita proprio nel momento in cui comincia a cedere. Ogni curva, ogni torsione, ogni volto inciso dalla luce si muove tra due estremi che non si respingono: l’apertura e il crollo, la fame e l’esaurimento, la tensione e la resa.
Anche il desiderio viene sempre disegnato come materia viva, ma già in trasformazione. I corpi non cercano salvezza, non chiedono perdono. Stanno. Si piegano, si torcono, trattengono. La morte non diventa mai un tema, ma una grammatica che struttura tutto. Ogni figura parla quella lingua fatta di gesti imperfetti, di posture incerte, di sguardi bassi che ti attraversano la carne.
E quando esco dall’ossario, il pensiero non va alla morte come costruzione simbolica, ma alla sua espressione fisica, al modo in cui prende spazio, s’imprime nella materia, si manifesta nei muscoli e nella postura che cede un poco ogni giorno.
Schiele sembra sempre senza difese.
Restituisce quello che vede, quello che abita e lo mostra con la precisione di chi ha imparato a guardare troppo presto e da troppo vicino per poter fingere altro.
La morte e la fanciulla
Nel 1915 dipinge La morte e la fanciulla.
Si tratta di un’opera che trattiene, con precisione quasi documentaria, una dinamica che aveva smesso di essere relazione per diventare urgenza di rappresentazione.
Un uomo e una donna giacciono su un lenzuolo piegato, irregolare, abbandonati su un piano che pare non appartenere alla realtà.
Lui indossa un saio scuro e le sue braccia, esili fino all’ossessione, si avvolgono attorno al corpo di lei con una gestualità che ha perso ogni volontà di stringere. Non è un abbraccio vero e proprio, è una presa senza forza, un tentativo stanco di trattenere qualcosa che si é già deciso che non avrà futuro. Il volto è reclinato, gli occhi disfatti e rivolti altrove. Verso il vuoto che seguirà.
È un corpo che ha smesso di chiedere, che non lotta più, che si limita a rimanere adagiato contro un altro. C’è solo il peso delle membra, il silenzio tra due respiri, il contatto che sopravvive al gesto.
Lei resta in quell’abbraccio. La testa piegata, il collo scoperto, il corpo che cede in avanti con la stessa rassegnazione di chi ha già attraversato il punto di rottura. Lo sguardo fugge altrove, taglia la scena con una diagonale che esclude lui e tutto ciò che rappresenta.
Non c’è rabbia, non c’è difesa. Solo la consapevolezza piena e già compiuta, di una fine che non ha bisogno di essere annunciata.
Egon racconta la scena mentre accade, mentre sfugge.
Non c’è simbolo, non c’è retorica, non c’è nessuna traccia della sensualità che solitamente attraversa i suoi corpi.
Solo il residuo. E dentro quel residuo, tutto ciò che non può essere più detto.
Wally Neuzil, la fanciulla che posa per il dipinto, è compagna, amica, presenza quotidiana, testimone e argine di anni complessi. Si conoscono nel 1911: lei non ha ancora diciassette anni, lui è già immerso nel ritmo caotico della sua produzione. Wally è la sua modella, ma non è mai solo figura. Tiene i conti, organizza gli spostamenti, difende. E rimane, quando tutto intorno si fa instabile.
Rimane anche quando il carcere, la disapprovazione, l’isolamento sembrano più ingombranti dell’opera stessa.
Nel 1915, con una lucidità che ha molto più a che fare con la strategia sociale che con una reale evoluzione sentimentale o affettiva, Schiele sceglie di sposare Edith Harms. È la figlia di un fabbro viennese: una giovane donna borghese, silenziosa, conforme nel volto, nel corpo, nella storia.
Una figura che s’inserisce perfettamente nel disegno che comincia a prendere forma attorno all’artista, un’idea di legittimazione pubblica e di rispettabilità domestica che può garantire sicurezza, accettazione e stabilità.
La decisione di Egon non nasce da uno scarto emotivo, ma da una scelta opportunistica e consapevole: stare con Wally significava continuare a muoversi fuori asse, restare legato a un passato marginale, scandaloso, difficile da difendere. La presenza di quell’amore, così compromesso agli occhi della società, sarebbe stato d’intralcio a ogni tentativo di reintegrazione nel perimetro di una vita borghese.
Sceglie Edith, quindi, per aprirsi una strada più agevole, già tracciata da altri, più semplice da spiegare, meno esposta al giudizio, più adatta a un uomo che intendeva essere artista ma anche farsi accettare dal mondo che conta.
A Wally propone un accordo: continuare a vedersi, una volta l’anno, mantenere un contatto disinnescato, gestibile.
Lei rifiuta. E se ne va. Non lascia tracce, non cerca spiegazioni, non produce memoria. Si sottrae.
Quel quadro è la traccia. L’unica.
Non una restituzione, ma un tentativo di trattenere. Lui è la morte, lei la fanciulla. Ma i ruoli sono tuttora scambiabili. L’unico dato certo è la distanza. E la consapevolezza che non potrà più essere colmata.
Negli ultimi anni, Schiele continua a disegnare, a dipingere, a produrre con l’urgenza di chi ha smesso di aspettare autorizzazioni. Edith muore nell’autunno del 1918. Wally se n’è già andata un anno prima, in Dalmazia, a ventitré anni, mentre presta servizio come infermiera militare. Tre giorni dopo la perdita della moglie, Egon si spegne, colpito dalla febbre spagnola. Tre giorni soltanto tra un corpo e l’altro, tra un addio e la chiusura definitiva di un’epoca.
La guerra finisce, l’Impero crolla. E il quadro resta.
La possibilità dell’impossibile
Forse si erano trovati nel momento sbagliato.
In un modo così preciso, così inevitabile, da sembrare scritto in una lingua che nessuno dei due sapeva leggere, ma che entrambi riconoscevano sotto pelle. Era qualcosa che s’imponeva da sé, che prendeva spazio prima ancora che ci si accorgesse della sua esistenza, che non aveva bisogno di gesti eclatanti né di parole chiare, ma che si manifestava nella forma di una presenza discreta, costante, inevitabile.
Non era una relazione, non c’era un progetto, non c’erano promesse.
C’era però un’intesa minima e profonda, fatta di frammenti, di scambi sospesi, di dialoghi mai terminati ma che continuavano a vibrare.
E c’era anche quella distanza, imparata, forse necessaria, che manteneva tutto in equilibrio precario, come se bastasse un passo in più per far crollare tutto, ma anche un passo in meno per non incontrarsi mai davvero.
Ci sono legami che non chiedono spiegazioni, che non cercano una definizione, che non si lasciano addomesticare, eppure esistono, con la stessa forza di quelli ufficiali, riconosciuti, esibiti. Anzi, forse proprio perché non protetti da nessuna struttura, da nessun accordo, da nessuna parola rassicurante, risultano più integri, più vivi, più difficili da dimenticare. E quando finiscono (perché qualcosa finisce sempre) non lasciano una storia compiuta, non producono una narrazione da condividere. Lasciano una sospensione. Un gesto a metà. Un abbraccio che nessun altro potrà ripetere.
Non c’è bisogno di sapere cosa sarebbe successo se ci fosse stato più tempo.
Non è utile immaginare un epilogo diverso.
Quello che continua a tornare è la sensazione precisa di aver attraversato qualcosa che ci ha cambiati, che ha aperto un varco, che ci ha mostrato una possibilità magari irrealizzabile, magari incompatibile con tutto, ma reale.
E a volte basta quello.
Anche solo per riconoscere che esistono incontri che non si tengono, ma che non si perdono mai del tutto.
Incontri che non diventano vita quotidiana, ma che continuano ad abitarti come un fondale sottile su cui tutto si appoggia.
E che, anche se non durano, lasciano traccia.
Perché hanno dato, solo per un attimo, tutto il resto.
Un po’ di cose belle
Egon Schiele Online – Catalogo ragionato digitale
Basato sul lavoro di Jane Kallir. Un sito che documenta in dettaglio dipinti, disegni e acquerelli dell'artista.The Marginalian – Lettera sull’essere artista
Una riflessione intensa di Schiele sul significato dell'arte e della visione artistica.Leopold Museum – Poesia “My Love” (1906)
Una poesia d'amore scritta da Schiele per Margarete Partonek.Financial Times – Schiele e il paesaggio spirituale
Un'analisi della connessione tra Schiele e la natura, vista come espressione del divino.È uscito anche questo mio articolo su Finestre sull’Arte, dedicato alla poetica della scomparsa nell’arte contemporanea — da Rachel Whiteread a Francesca Woodman e oltre.
Mi taccio
Ciao, ciao.