Atlante minimo delle ferite invisibili
Viaggio nelle Highlands tra leggende, lutti e ospitalità spezzate
Capita, a volte, che un dettaglio apparentemente irrilevante come una cucitura appena fuori asse, una pressione sul lato sbagliato del petto, una goccia rimasta dove non dovrebbe esserci acqua, riesca a riorientare tutto quanto: il corpo, la percezione, il modo stesso in cui si occupa lo spazio. Non con violenza, né attraverso manifestazioni eclatanti, ma con quella precisione sorda e implacabile che appartiene soltanto alle verità più elementari, quelle che non si discutono, che non chiedono spiegazioni e che, proprio per questo, modificano l’assetto senza lasciare margine al dubbio. Quando accade, non c’è nulla da fare. Nessuna urgenza di comprendere, nessuna possibilità di trovare una soluzione. Solo un confine attraversato senza preavviso, una soglia di cui ci si accorge solo nel momento in cui è già troppo tardi per tornare indietro, quando il corpo si è già adattato, quando il paesaggio non è più qualcosa da osservare, ma una materia che comincia a muoversi dall’interno.
A me è successo così, senza annunci. Nessuna epifania, nessuna immagine nitida da conservare, nessuna frase rivelatrice da appuntare sul taccuino. Solo un sedile lasciato umido da una pioggia sottile e rapida, una di quelle scozzesi che durano appena il tempo necessario a modificare la temperatura del corpo ma non la memoria di chi passa. Venti minuti, forse meno, e già si era ritirata, lasciando solo un’ombra scura sulla stoffa, un punto freddo e bagnato a ricordare il suo passaggio. Eppure é bastato quello. É bastata una gamba inumidita e la schiena inclinata per evitare il contatto, la testa appoggiata appena al vetro per compensare la torsione, perché capissi che quel piccolo slittamento, quella scomodità impercettibile che non riuscivo ad aggiustare, era diventata la misura della mia presenza.
In quel momento non stavo più guardando fuori, non stavo più seguendo il tragitto che qualcun altro aveva tracciato, non cercavo nemmeno di capire dove stessimo andando. Stavo nel paesaggio, ma non come spettatrice e nemmeno come viaggiatrice, piuttosto come corpo in stato di ricezione, attraversato da una condizione scomoda e che non chiedeva di essere nominata. E non avevo ancora visto nulla. Non Glencoe, che ci avrebbe trattenuti per ore oltre ogni previsione. Non le pietre disposte a spirale di Callanish, immobili e testarde nel loro silenzio millenario, né l’acqua cavernosa di Staffa, che sembrava invitare alla contemplazione per poi chiudersi improvvisa su se stessa. Ma tutto stava già accadendo. Non nel mondo esterno, non in ciò che si può descrivere, ma nella carne che cominciava a registrare un cambiamento sottile e irreversibile, una trasformazione che non dipendeva da ciò che vedevo, ma dal modo in cui io stessa venivo vista, toccata, riconfigurata da un luogo che restava lì, a osservare.
Era come se qualcosa si fosse contratto. Non una memoria, non un’emozione precisa, ma un restringimento dello spazio, un affiorare di una tensione che non si risolve. Una pressione che non somigliava a un dolore, ma che obbligava a stare. A sentire. E in quella pressione, in quel lento adattarsi del corpo, sei apparso tu. Ultimamente ho scoperto che ti penso nei posti dove il vento passa prima di ogni cosa, anche prima di me. Non perché voglia associarti a un luogo, ma perché esistono geografie che precedono il pensiero, che non chiedono partecipazione, ma selezionano, misurano, calcolano quanto sei disposta a lasciarti attraversare senza rispondere, senza stringere, senza più tentare di capire.
E quel vento misto a pioggia, quel giorno, non urlava, non scuoteva, ma si muoveva con la precisione affilata di chi ha già intuito dove farti cedere, e in quale parte del corpo sarà più giusto cominciare.
Ti ho sentito lì, tra il collo e la spalla, nel punto esatto dove si poggiano le cose che non se ne vanno mai del tutto.
Non sei più nel tempo. Non sei più tra le possibilità.
Ma continui ad apparire nei giorni non previsti, nelle soste sbagliate, nei percorsi lasciati al caso.
Continui a presentarti tra i muscoli, nel respiro, nell’aria che cambia direzione senza rumore.
E io resto immobile, semplicemente perché non trovo nulla che valga più del silenzio in quei momenti.
Non serve dire.
Non serve capire.
Ci sono presenze che resistono alla morte senza chiederlo, che si affermano non per volontà ma per forma, non come spirito ma come materia del vuoto.
E tu, tra tutte, sei quella che pesa di più.
E mentre stavo lì, con la coscia umida e il corpo sbilanciato in una posizione che non avevo scelto, ho pensato che in fondo sei sempre stato tu a mostrarmi il modo di abitare gli spazi storti, i punti ciechi, le posizioni scomode da cui il mondo si apre all’improvviso in una forma nuova.
Da bambina ero troppo piccola per vedere tutto, troppo leggera per impormi, troppo bassa per essere presa sul serio, e tu mi dicesti che a ogni cosa c’è sempre una soluzione, anche quando sembra non esserci via d’uscita, e mi prendesti sulle spalle per farmi guardare un concerto dall’alto, in mezzo alla folla.
Ricordo ancora il peso delle tue mani sulle mie ginocchia, l’equilibrio incerto ma solido, la vertigine di quello sguardo che per la prima volta non doveva più alzarsi.
Forse è stato allora che ho capito che si può stare nel mondo in tanti modi diversi, che esistono molte altezze possibili, molte direzioni da cui osservare la stessa cosa.
E oggi, in Scozia, con il paesaggio che si dispiega come una carta geografica senza contorni precisi, mi accorgo che sto ancora guardando da quella prospettiva.
Solo che ora sei sparito dal campo visivo, sei scomparso dal tempo, ma continui a orientare le direzioni.
E mentre percorriamo queste strade che sembrano appartenere a nessuno, mentre attraversiamo vallate che si allungano come vene, mentre guardo i fiumiciattoli che sembrano fatti di lacrime, mi rendo conto che ti sto cercando non per nostalgia, ma per confermare che la tua assenza è ancora in grado di guidarmi.
Dove l’ospitalità si spezza e il mito trattiene
Non avevamo programmato una sosta così lunga. L’intenzione (se mai ce n’era stata una) era quella di attraversare la valle nel pomeriggio, fermarsi per una passeggiata, prendere forse un caffè e poi proseguire verso nord, come se Glencoe fosse solo una parentesi suggestiva, un nome inciso sulle guide o tra le foto salvate per sbaglio. Ma le cose, come spesso accade quando non sei tu a decidere ogni dettaglio, hanno preso una piega più lenta, più sbagliata, e proprio per questo più giusta. Ci siamo trovati bloccati a lì per ore, senza campo, senza direzione, senza motivo apparente, eppure con la sensazione sempre più netta che restare lì, in quel vuoto imperfetto, fosse la cosa più necessaria che ci fosse successa da giorni.
Adam è stata la nostra guida. Non indossava nulla che lo identificasse come guida, non faceva nulla per essere ascoltato. Era semplicemente lì. E quando ha iniziato a parlare, lo ha fatto con quella calma antica di chi non racconta per spiegare, ma per custodire. Non stava improvvisando un aneddoto per turisti distratti, stava tramandando un pezzo di storia che appartiene alla carne prima ancora che alla narrazione. E ci ha detto che quello che stavamo attraversando non era soltanto un paesaggio, ma un luogo sacro nella forma più tragica del termine.
Il 13 febbraio 1692, in questa valle che oggi viene percorsa in auto da chi cerca scogliere e castelli, ebbe luogo uno dei più gravi e vili massacri interni della storia scozzese moderna. I protagonisti, se così si possono chiamare, furono due clan: i MacDonald di Glencoe, storicamente legati ai Giacobiti, e i Campbell, schierati con il nuovo ordine imposto da Londra. A seguito della cosiddetta "Glorious Revolution" e dell’ascesa al trono di Guglielmo III d’Orange, tutti i clan delle Highlands furono obbligati a giurare fedeltà alla nuova monarchia entro il primo gennaio 1692. Alexander MacDonald, capo del ramo di Glencoe, ci provò: viaggiò fino a Fort William per prestare giuramento, ma il comandante locale, non autorizzato ad accettarlo, lo indirizzò a Inveraray, dove però giunse in ritardo, il 6 gennaio. Solo sei giorni, che nelle condizioni climatiche e geografiche delle Highlands del XVII secolo avrebbero dovuto essere letti come una difficoltà oggettiva, e non come un atto di sfida.
Eppure bastarono. Il governo centrale, sotto la direzione del segretario di Stato John Dalrymple, Master of Stair, scelse proprio quel ritardo come pretesto per punire il clan dei MacDonald, che considerava ribelle, ostile e pericoloso. La punizione non fu una battaglia, né uno scontro aperto, ma una vendetta fredda, pianificata con metodo, eseguita attraverso la più devastante delle violazioni: quella dell’ospitalità.
I soldati del reggimento Campbell, sotto il comando di Robert Campbell di Glenlyon, arrivarono a Glencoe con un finto ordine di alloggio. Furono ospitati dai MacDonald. Vissero con loro per dodici giorni, mangiando insieme, dormendo sotto lo stesso tetto, condividendo vino, pane, forse anche qualche risata. Fino alla notte del 12 febbraio, quando arrivò l’ordine esecutivo: "Mettere a morte i MacDonald di Glencoe, fino a settant’anni d’età". Non era una rappresaglia improvvisa. Era un atto politico mascherato da operazione militare, un monito per gli altri clan.
All’alba del 13 febbraio, i Campbell si alzarono da quelle stesse case e iniziarono a uccidere. Lo fecero in silenzio, sistematicamente. Ammazzarono trentotto uomini nel sonno. Altri morirono congelati, fuggendo nella neve, in un inverno che completò il lavoro con la sua spietata efficienza. Morirono donne, bambini, anziani. Non per odio personale, ma per obbedienza burocratica. E forse fu proprio questa assenza di passione, questo compimento meccanico, a rendere il massacro di Glencoe così incancellabile. Una violazione dell’etica più antica, della giustizia naturale, della fiducia tra esseri umani. Una strage eseguita dopo giorni di convivenza, dopo una familiarità costruita appositamente per essere tradita.
Signore, vi si ordina con la seguente di catturare i Ribelli, i MacDonald di Glencoe, e di passare a fil di spada tutti coloro di età inferiore ai 70 anni. Avrete particolare attenzione affinché la vecchia Volpe ed i suoi Figli non riescano a fuggire e a fare in modo di tagliare ogni via di fuga.
Questo ordine dovrà essere eseguito entro le cinque del mattino, quando io arriverò da voi con dei rinforzi. Se non sarò arrivato per quell'ora eseguite gli ordini senza di me. Questo è un ordine Speciale del Re per il bene e la salvezza del paese, affinché a questi miscredenti vengano tagliate radici e rami. Certo che compirete il vostro dovere come voi sapete fare, sottoscrivo di mio pugno quanto sopra.
12 febbraio 1692
Firmato Robert Duncanson
Adam ci raccontava tutto questo senza mai alzare la voce, con una specie di pudore antico, come se quelle parole non gli appartenessero del tutto, ma gli fossero state affidate. E mentre parlava, capivo che non stava trasmettendo un contenuto: stava incarnando una memoria. In quella valle non ci sono lapidi, né musei, né rievocazioni ufficiali. C'è solo il paesaggio, che trattiene. E che guarda, mentre tu ancora decidi se fermarti o no.
Ogni anno, ci ha detto, c'è chi torna qui per commemorare e si racconta che quei piccoli fiumi che attraversano Glencoe siano fatti delle lacrime versate proprio quella notte. E che la valle, per quanto splendida, non dimentichi nulla.
E poi c'è la leggenda. Una di quelle che resistono ai secoli, alle mappe, agli archivi. Dopo il massacro, una strega raccolse la spada del capoclan e la gettò in un lago. Disse che, finché nessuno la tirerà fuori, i MacDonald resteranno invincibili in battaglia. E così è stato, almeno fino alla Prima Guerra Mondiale. Quando, forse, qualcuno quella spada l'ha trovata davvero.
Non è l'unica storia a impregnare queste terre. Poco distante da qui, il ponte di Ballachulish fu costruito con tre bulloni (non essenziali) mancanti. Non per errore o mancanza di materiale, ma per rispetto sempre di una leggenda: si dice che ogni ponte completato in quel punto avrebbe portato sfortuna a chi lo attraversava. Quindi meglio vivi e precari, che morti e in regola.
E ancora, ci sono le immense statue equestri a Falkirk. La leggenda racconta che i Kelpies, spiriti d’acqua mutaforma, emergano dai laghi sotto forma di cavalli bianchi, splendidi, con occhi rossi. Si lasciano accarezzare dai viandanti, si mostrano docili e familiari. Ma appena si tende la mano, il loro pelo si trasforma in una sostanza vischiosa, come colla, e in un attimo il viaggiatore si ritrova imprigionato da alghe e funi invisibili che lo trascinano negli abissi. Per riconoscerli, dicono, bisogna guardare gli zoccoli che sono al contrario. È da lì che si capisce se hai davanti un cavallo o un demone.
E poi c’è l’unicorno, simbolo araldico della Scozia. E non si tratta di una scelta casuale poiché esso, nella mitologia, è l’unico essere in grado di sconfiggere il leone. E il leone, com’è noto, campeggia sullo stemma dell’Inghilterra. In Scozia, dunque, l’unicorno non è solo una creatura fantastica, ma una dichiarazione d’indipendenza. Un animale fiero, testardo, imbizzarrito, che può essere domato solo da chi è puro di cuore. In un paese dove i cavalli non sono mai solo cavalli, ma spiriti travestiti o custodi di verità nascoste, scegliere l’unicorno come simbolo nazionale è una provocazione poetica. E forse è anche per questo che, per molti scozzesi, il fatto che Voldemort uccida proprio un unicorno è stato vissuto come un affronto personale, come l’equivalente narrativo di calpestare una bandiera. Del resto, in un mondo in cui l’araldica può ancora dire qualcosa, assassinare tale creatura è peggio che essere il cattivo: è essere inglese.
Alla fine Glencoe è rimasta lì, alle nostre spalle, ma non come restano le tappe di un itinerario, segnate con un punto sulla mappa e poi superate. È rimasta come resta ciò che ti ha spostato senza chiedere e che da quel momento diventa un asse nuovo su cui ricalcolare l’equilibrio. Non abbiamo lasciato la valle: ci siamo solo spostati un poco, portandoci dietro il peso delle storie che non possono essere digerite, ma solo accolte.
E se ogni leggenda nasce dove qualcosa si rompe (una regola, un confine, una fiducia) allora Glencoe continua a raccontare proprio perché nessuno l’ha mai rimessa a posto. E continua a trattenere, a modo suo, chi ha ancora dentro qualcosa che cerca una crepa per uscire.
Mi taccio.
Ciao ciao