Ho quasi trent’anni e nessuna idea chiara di chi dovrei essere. Ma so cosa sono stati i vent’anni, e cosa hanno lasciato addosso.
Questa puntata è diversa: più personale, più lunga, più scomoda.
È un piccolo inventario parziale, scritto con quello che resta.Iniziamo.
Ci sono anni che non servono a formarti.
Servono a frantumarti, a scucirti punto dopo punto. A svuotarti la lingua dalle parole degli altri per costringerti a trovare le tue.
Non ti costruiscono, ma ti rompono le ossa in punti che non sapevi di avere e poi ti chiedono di ballarci sopra.
E tu, per un po’, ci provi davvero.
Ti reggi su quelle ossa spezzate come fossero bastoni di fortuna e impari a camminare storta, a parlare anche quando nessuno vuole ascoltare, a mostrarti intera mentre ogni parte cerca una forma diversa da quella che ti è stata assegnata.
Ma non è eroismo. È mestiere. È sopravvivenza in assenza di linguaggio.
E poi succede che un giorno tuo fratello, senza volerlo, ti restituisce un frammento.
Un oggetto che non ha la pretesa di essere memoria ma finisce per diventarlo.
Un gesto che somiglia più a uno sbaglio che a un regalo, e dentro quel gesto ti riconosci.
Un’asticella di legno grezzo posizionata in orizzontale da cui pendono pezzetti di spago tagliati a diverse altezze senza alcuna simmetria, senza nessuna regola. Su ognuno di questi fili, tre o quattro fotografie, fissate con mollette spaiate, alcune rotte, qualcuna incrostata di polvere come se fosse stata dimenticata in una scatola che nessuno aveva mai avuto il coraggio di aprire del tutto.
Non c’era cornice, né vetro. Solo immagini rimaste in bilico e un suo commento dietro ognuna. C’erano corpi piegati, sorrisi a metà, occhi chiusi, gesti mozzati, fronti bagnate di stanchezza o d’estate. E in mezzo, la carne viva dell’esistere.
In quelle immagini scattate senza posa si è sedimentata una materia che nessuna cornice avrebbe saputo contenere: l’insieme disordinato, contraddittorio, feroce e bellissimo di tutto quello che sono stata mentre cercavo una forma che non mi stesse stretta.
C’era la ragazza che correva sotto la pioggia con le scarpe piene d’acqua e i capelli sulla faccia, e rideva. Non per leggerezza, ma per fame. Fame di sentirsi presente, di riempire il silenzio con un gesto qualsiasi che sembrasse vita.
C’era quella seduta sul pavimento della cucina, con le spalle contro il muro e il cuore in silenzio, incapace di piangere, ma troppo lucida per fingere che andasse tutto bene.
C’era quella che, un pezzo alla volta, aveva costruito una famiglia con chi era rimasto, con chi non chiedeva resoconti, con chi sapeva esserci nei modi più silenziosi e più necessari: chi cucinava quando non mangiavi, chi toglieva i piatti senza fare domande, chi stava a telefono per ascoltare anche quello che non dicevi.
In quelle fotografie c’era anche la depressione mascherata da efficienza. Sorridente, educata, sempre in orario, capace di tenere ogni pezzo in piedi anche mentre tutto dentro cadeva.
E c’era la violenza. Quella che lasciava lividi nei posti giusti per non essere riconosciuta. Quella che ti fa misurare il tono della voce, la lunghezza del messaggio, lo spazio che occupi. Quella che ti allontana da te senza che tu te ne accorga, fino al giorno in cui, guardandoti, non sai più se sei ancora quella che c’era prima.
Ma non c’erano solo ferite.
C’erano anche le risate a crepapelle, quelle che ti fanno piegare in due, con le lacrime agli occhi e il fiato che manca, e in quei momenti nessun dolore regge il confronto.
C’erano gli abbracci, dati con la forza e la cura di chi non ha mai creduto nella mezza misura.
C’erano le battute fuori tempo di mio fratello: la sua ironia ruvida, quel modo sbilenco e inconfondibile di tenermi a galla quando sembrava che tutto si stesse sfaldando. Lui che non è mai stato elegante, ma sempre esatto, che con una frase indecente riusciva a riparare il mondo.
E c’è stato anche l’amore, quello romantico, riconoscibile, fatto di cene sulle panchine e mani che si cercano nel buio, di parole dette con troppa fretta e silenzi che non bastavano a contenere tutto il resto. L’amore delle relazioni ufficiali, delle fotografie di coppia, delle speranze cucite con un filo troppo sottile. Ma anche molte altre forme d’amore, più sfuggenti: quello degli amici che si siedono accanto e non ti chiedono nulla. Che ti guardano come se fossi ancora tutta, anche quando ti sei già sparsa in cento pezzi. L’amore che arriva in una chiamata inutile da un’altra città, solo per dire: Ti voglio bene. Mi manchi. Qui a Zurigo l’assicurazione sanitaria costa troppo.
C’era una felicità sfacciata e bellissima, fatta di corpi buttati sul divano, di sogni condivisi a metà, di mattine strane e pomeriggi pieni di niente, ma vissuti insieme.
Quelle fotografie non raccontano nulla di tutto questo, ma lo contengono.
E forse è proprio in tutto ciò che non si mostra che si conserva meglio ciò che conta: non chi sei diventata, ma quanta vita hai attraversato per poter esserci ancora.
Come si raccontano i vent’anni?
Dopo aver riguardato tutte quelle diapositive come prove residue di ciò che si è stati, mi è rimasta una domanda addosso: si può davvero raccontare la giovinezza, senza addomesticarla?
Non la giovinezza come età, ma come pressione interna. Come condizione disallineata, inconciliabile, che non si lascia contenere nei codici dell’autonarrazione né nei linguaggi dell’identità.
Quella che scappa dal centro e vibra nei margini, quella che si dice male, che si dice troppo, o che resta in silenzio per mesi, sperando che qualcuno capisca comunque.
Quella che non ha ancora imparato a somigliarsi, ma pretende di essere vista.
È in quella tensione che si apre Fotografia Europea 2025: nello scarto sottile, ma incolmabile tra ciò che si è stati e ciò che si pretende di diventare. Una tensione che non cerca soluzioni, ma spazio. Che non propone linee chiare, ma interruzioni. È una mostra che rifiuta la superficie levigata e scava invece nei punti dove l’immagine cede, inciampa, resta sospesa.
Avevo vent’anni, e non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita
Con questa frase Paul Nizan demoliva il mito romantico della giovinezza, e allo stesso tempo ne inchiodava la vertigine. Perché a vent’anni si è vivi fino all’osso, ma anche spaesati, incompiuti, esposti a ogni ferita. E se la società continua a raccontare questa stagione come un’epoca d’oro, non è che per ignorarne la fatica, l’ambivalenza, il dolore sordo che si nasconde dietro le immagini levigate, le feste in controluce, le risate che sembrano eterne. Ma la giovinezza è un campo di battaglia fatto di possibilità e precipizi, di sogni pronunciati a mezza voce e di interrogativi troppo grandi per restare in gola.
Un archivio di disordini necessari
Entrare nella retrospettiva di Daido Moriyama per il Festival di Fotografia Europea, allora, non significa semplicemente attraversare una mostra, ma ritrovarsi dentro un archivio vivo, una materia pulsante, un corpo visivo che respira di frizioni e superfici graffiate che non hanno alcuna intenzione di lasciarti intatto. Non c’è un percorso, non c’è una progressione lineare, non c’è una logica narrativa pensata per confortare. C’è solo lo scarto tra ciò che si vede e ciò che resta, tra la realtà e la sua deformazione.
Le sue fotografie agiscono. Non dicono "guarda", ma "senti" e non ti permettono di pensare al Giappone del dopoguerra come un contesto lontano, ma te lo fanno passare sulla pelle. Ti costringono a inciampare, a camminare tra sgranature, ad accettare l’inquadratura sbagliata come l’unica possibile. Il bianco e nero di Moriyama non è un vezzo stilistico, è un’urgenza. È la prova che la realtà non è mai oggettiva, e che per raccontarla serve perdere qualcosa, abbandonare il centro, rinunciare alla messa a fuoco.
Moriyama è nato a Ikeda, Osaka, nel 1938, e ha attraversato la ricostruzione del Giappone nel secondo dopoguerra: un paese trasformato dall’occupazione militare americana, spinto verso una modernizzazione accelerata e costretto a rinegoziare la propria identità tra tradizione e globalizzazione. In quel contesto ha immaginato la fotografia come linguaggio democratico, una scrittura visiva contaminata e instabile, capace di agire nei territori dell’ambiguità, della ripetizione, dell’errore.
Curata da Thyago Nogueira, e frutto di una ricerca durata tre anni, quella a Reggio Emilia è una delle retrospettive più complete mai allestite sul suo lavoro. Ospita le sue serie più celebri, ma anche libri fotografici, riviste, materiali d’archivio, e installazioni su larga scala che non cercano di ordinare, ma di confondere in modo fertile e di far emergere il disordine come unica forma possibile di onestà.
Moriyama ci mette davanti a una domanda che ci riguarda tutti: quanto possiamo davvero sopportare dell’immagine prima di iniziare a mentire? Quanta verità siamo disposti a lasciare sfocata pur di salvarne una porzione leggibile? E in che punto, esattamente, la fotografia smette di essere un mezzo per raccontare e diventa un luogo da abitare?
In fondo, non è questo il compito più necessario dell’arte oggi? Non ordinare, ma disturbare. Non rassicurare, ma spostare. Non offrire significati, ma aprire fratture.
Chi esce da questa retrospettiva non ha visto "una mostra su Moriyama". Ha vissuto un attraversamento. E forse, se è vero che a vent’anni si muore mille volte, allora queste fotografie sono il luogo dove qualcuna di quelle morti trova finalmente forma. E resta.
Alla gloriosa disfatta dei vent’anni
Si cresce così, dentro verbi che indicano movimento ma che in realtà sono confini: crescere, diventare, posizionarsi, formarsi, e mentre t’insegnano a costruire, nessuno ti spiega cosa si rischia a costruirsi sulle parole degli altri, sull’attesa degli altri, sul bisogno degli altri di vederti finalmente “centrata”, “stabile”, “pronta”. Quando invece tu vorresti solo un posto dove sederti senza doverti raccontare, senza dover brillare, senza dover performare l’idea che hai capito chi sei e dove stai andando, anche se non hai nessuna intenzione di arrivare.
Ci hanno detto che a trent’anni bisogna arrivarci in centro.
Con una casa, una relazione che dura, un lavoro (possibilmente senza partita IVA) e magari un'idea chiara di sé, o almeno un vocabolario con cui spiegarsi. Ma io, di tutti questi successi misurabili, ne conto giusto due. E nemmeno bene. E forse, col senno di poi, è proprio questo che volevo: non un traguardo, ma un punto in cui potermi voltare e dire “non ho tradito tutto quello che ero”.
A me, a vent’anni, nessuno ha detto che si poteva sbagliare senza diventare un errore.
Che si poteva fallire senza essere un fallimento.
Che si poteva cambiare idea, perdere tempo, allontanarsi, ricominciare.
Mi hanno insegnato a stringere i denti, a non disturbare, a farcela da sola.
E io ho imparato.
Ho imparato che anche l’autonomia, se non è scelta, è una forma di abbandono. Che si può vivere con le mani screpolate dal lavoro, con le ossa stanche e il sorriso ancora intero. Che le madri non possono sistemare tutto e che i padri non sanno sempre cosa dire.
E a vent’anni si muore. Mille volte.
Di amori non restituiti, di progetti falliti, di amicizie che si sfilacciano e non si capisce perché. Si muore per troppe aspettative, per il senso di non valere abbastanza, per l’illusione che ogni errore sia irreversibile. Si muore anche di vergogna, di solitudine, di silenzi che nessuno raccoglie. Ma si rinasce sempre. A pezzi. Storti. Più duri o più fragili. Mai interi. Mai come prima.
E adesso che i trenta li sento addosso (non come traguardo, ma come frizione) mi accorgo che l’unica vera forma di continuità possibile è questa: non diventare altro, ma portare con me tutto ciò che non è stato risolto, tutto ciò che non si è mai sistemato, tutto ciò che non ha mai imparato a posare.
Non è un atto di nostalgia, né un atto di fedeltà. È un gesto politico di presenza.
Perché non arrivi ai trent’anni con l’idea chiara di te, ma con un filo tirato tra quello che eri e quello che ancora non sei.
E quel filo, a volte, è uno spago grezzo, sporco di polvere e memoria, che trattiene immagini sgualcite e perfette di tutte le forme che hai abitato, anche quando ti sembravano le più inadatte, imprecise, sbagliate.
Sedi di Fotografia Europea
CHIOSTRI DI SAN PIETRO | via Emilia San Pietro, 44/c
Daido Moriyama: a retrospective
Andy Sewell. Slowly and Then All at Once
Claudio Majorana. Mal de Mer
Ghazal Golshiri & Marie Sumalla. You don't die
Vinca Petersen. Raves and Riots
Jessica Ingram. We are Carver
Thaddé Comar. How was your dream?
Kido Mafon. IFUCKTOKYO - DUAL MAIN CHARACTER
Toma Gerzha. Control Refresh
Karla Hiraldo Voleau. Frammenti
PALAZZO DEI MUSEI | via Spallanzani, 1
Luigi Ghirri. Lezioni di fotografia (working title)
Giovane Fotografia Italiana #12 | Premio Luigi Ghirri 2025
PALAZZO DA MOSTO | via Mari, 7
Federica Sasso. Intangibile
Michele Borzoni e Rocco Rorandelli. Silent Spring
Matylda Niżegorodcew. Octopus’s Diary
Fluorescent Adolescent.
Rä di Martino. Electric Whispers
Women See Many Things
Mi taccio
Ciao ciao
F.